Il programma di questa edizione 2018 del Napoli Teatro Festival è davvero «affollato», e così variamente dislocato che risulta difficile riuscire a cogliere occasioni diverse, anche perché gli orari spesso coincidono. Un’occasione però davvero imperdibile è stata nei giorni scorsi la nuova opera firmata da Spiro Scimone, andata in scena con la regia di Francesco Sframeli, entrambi presenti in palcoscenico assieme a una compagnia tanto numerosa come con loro non si era mai visto. E il testo citava un titolo davvero imperdibile se fatto da loro: Sei, ovvero i Sei personaggi pirandelliani sempre alla ricerca del loro autore (e curiosamente ha da poco debuttato con lo stesso titolo una riduzione firmata da Roberto Latini).

Questa volta l’autore i Sei l’hanno trovato, in Spiro Scimone, che è ormai una delle migliori scritture drammaturgiche esistenti in Italia, e in questo senso l’arrivo a Pirandello costituisce davvero una meta e una prova decisive. Il lavoro di scavo nella scrittura pirandelliana per liberarla dai cliché è stato lo sforzo titanico quanto osteggiato di Massimo Castri, che di testi dell’autore siciliano ne mise in scena 7 o 8, subendo censure e divieti dagli eredi.

Ora che i diritti sono scaduti, anche Luca Ronconi qualche anno fa lavorò proprio sui Sei personaggi in maniera radicale, ma la sua drammaturgia In cerca d’autore era scritta sui corpi dei giovani straordinari attori.Spiro Scimone invece compie il lavoro proprio sulla parola, «riscrivendo» in grande fedeltà il testo originario, ma denunciandone apertamente quelle che oggi sarebbero inutili forzature (è ad esempio assente la macchietta della maitresse,Madama Pace) e lavorando piuttosto sulla propria esperienza di autore. Così è lui stesso a interpretare il capocomico/autore della compagnia in prova (come Emanuel Palmi lo era per la sua D’Origlia-Palmi), mentre Francesco Sframeli, che firma la regia dello spettacolo, è un misuratissimo «padre», ovvero il motore colpevole del dramma, che frequentando quel negozio di piacere insidiava con molta nonchalance la Figliastra.

Insomma qui la commedia pirandelliana perde il suo alone mitico e di ancestrale moralismo, per scoprire invece i rapporti concreti tra le persone: di attrazione o di convivenza, di accettazione o repulsione, ma comunque di dialettico confronto, dentro la forma teatrale qui elevata al quadrato o al cubo.

Lo dice, ad apertura di sipario, la bellissima scena di Lino Fiorito (i costumi sono di Sandra Cardini) che ci schiera una teoria di palchetti, all’occasione pronti ad aprirsi come vie di fuga o d’ingresso. E lo dicono anche i particolari che quella scena animeranno, come la piscinetta nella quale dovrebbe affogare la bambina. È insomma nella teatralità, nei suoi rapporti e nel suo uso, che il fosco dramma pirandelliano può rivivere, davanti a un pubblico meno «innocente» ed estraneo di quello coevo all’autore, e nella lucidità quieta degli attori, che come Scimone e Sframeli sono tutti davvero bravi.