Cultura

I reportage dal secolo breve dell’inviato Bernardo Valli

I reportage dal secolo breve dell’inviato Bernardo ValliBernardo Valli

Scaffale «Il mio Novecento», pubblicato da Archinto, racconta dove è stato e cosa ha visto in questi settant’anni il celebre giornalista, ma è uno scritto prezioso soprattutto per chi voglia capire cosa significhi davvero fare l’inviato

Pubblicato quasi 6 anni faEdizione del 30 gennaio 2019

Questo libro, Il mio Novecento, è il testo di una lectio magistralis che Bernardo Valli ha tenuto recentemente all’Università di Firenze e che Rosellina Archinto ha avuto l’intelligenza di pubblicare (Archinto, pp. 60, euro 10), accompagnandola con le foto che Tiziano Terzani aveva scattato nei tanti luoghi asiatici battuti con Bernardo negli anni Settanta, quando ambedue avevano casa a Singapore, sede geograficamente strategica per i corrispondenti incaricati di raccontare quel continente messo in subbuglio dalla guerra del Vietnam.

Valli, come dice il titolo, racconta il «secolo breve» che ci ha lasciato Eric Hobsbawm, dalla Prima guerra mondiale, quando sua madre crocerossina volontaria e suo padre, chirurgo militare nelle trincee, si erano incontrati, di lì scorrendo, a volo d’uccello, gli eventi più importanti accaduti in seguito in ogni parte del globo: perché in tutti, e sempre quando succedeva qualcosa di decisivo, Valli è stato presente come inviato, prima del Giorno, poi del Corriere della sera, della Stampa, infine, e tuttora, di Repubblica.

AL GIORNALISMO era arrivato si può dire per caso, dopo molti anni passati nell’Indocina e poi in Africa, nientemeno che come soldato della Legione Straniera, in cui si era arruolato a 17 anni (aveva, per dimostrare di essere maggiorenne, rubato i documenti del suo fratello maggiore), scappando dalla sua casa di Parma e imbarcandosi a Marsiglia. Voleva, già da allora, girare il mondo; e si può ben dire che c’è riuscito se continua a farlo anche ora che ha quasi 89 anni.

Questo «mio Novecento» racconta dove è stato e cosa ha visto in questi settant’anni, ma è uno scritto prezioso soprattutto per chi voglia capire cosa sia fare l’inviato di un giornale: un mestiere che oggi, purtroppo, è quasi scomparso, troppo spesso sostituito da quello inizialmente chiamato «internet scout», figura professionale apparsa negli anni Novanta, premonitrice dei duri tempi dell’informazione digitale.

Perché per un bravo inviato – e non ce ne sono molti – quel che conta sono certo le notizie, ma soprattutto metterle nel loro contesto, nel dire cosa è accaduto prima e cosa sarebbe con ogni probabilità accaduto dopo, così come chi erano gli altri attori non immediatamente visibili sulla scena. Insomma : spiegare il perché, un’operazione che richiede cultura, molte letture, capacità d’ascolto e di comprensione. E curiosità, non tanto per il così détto scoop, ma per indagare su tutto quello che appare immediatamente superfluo, per cui non sembra valga la pena perdere tempo; e invece, alla lunga, appare essenziale per capire la sostanza dell’accaduto. Tutte cose per cui stare fisicamente sul luogo è essenziale.

CERTO, per un giornalismo così ci vuole la carta stampata, difficile andar oltre la notizia ridotta all’osso, e perciò generalmente incomprensibile, che si legge sul telefonino. Non si tratta dell’elogio della lunghezza, vale sempre la dura lezione che ci ha impartito Luigi Pintor, maestro del succinto. Quel che conta è andar oltre l’immediatamente visibile, il contributo a riflettere. Del resto i grandi quotidiani che insistono a usare la carta, l’hanno capito, il New York Times, oramai, fin dalla prima pagina, pubblica quasi solo riflessioni, scontando che le notizie possono esser lette altrimenti.

Bernardo Valli, pur essendo un giornalista all’antica, è tutt’ora un grande giornalista, che ci ricorda come dovrebbero lavorare i bravi inviati. Un maestro. Anche per questo, oltreché per ripassare la storia del secolo con un buon osservatore, vale la pena di leggere questo libretto.

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