I rentier armati delle migrazioni
Oltre i confini Un’intervista con lo scrittore e studioso salavadoregno Oscar Martinez, autore de «La bestia» (Fazi), puntuale analisi del ruolo dei narcos, dei corpi paramilitari e degli Stati nazionali nella «fabbrica umana del crimine»
Oltre i confini Un’intervista con lo scrittore e studioso salavadoregno Oscar Martinez, autore de «La bestia» (Fazi), puntuale analisi del ruolo dei narcos, dei corpi paramilitari e degli Stati nazionali nella «fabbrica umana del crimine»
«Se i governanti di questo violento angolo del mondo e quelli dei saloni imbiancati di Washington avessero un’idea di quello che devono passare molti migranti centroamericani per arrivare fino alla frontiera con gli Stati Uniti, saprebbero che nessuna legge, nessun esercito e nessun volo di deportati potrà impedire che i centroamericani lascino la loro ingiusta e violenta terra». Basterebbero queste poche parole per spiegare il senso di quanto Oscar Martinez ha raccontato a proposito dell’«altra» grande corrente migratoria internazionale, rispetto a quella che varca il Mediterraneo in direzione dei paesi dell’Unione europea, che spinge ogni anno decine di migliaia di centroamericani a rischiare la vita per attraversare il territorio messicano e raggiungere gli Stati Uniti. Un viaggio di cinquemila chilometri, spesso compiuto in condizioni pericolosissime, aggrappati ai treni merci che sfrecciano velocissimi tra deserti e montagne; che può riservare ai migranti che lo affrontano ogni sorta di violenza: possono essere rapiti, per ottenere un riscatto o per essere ridotti in schiavitù, o uccisi dai narcotrafficanti o dagli agenti della polizia locale, che talvolta rispondono ai medesimi «cartelli» criminali, o, se sono donne, stuprate o costrette a prostituirsi nei bordelli creati dai narcos e tollerati da autorità corrotte e conniventi con la malavita. Consapevoli di tutto ciò, da El Salvador, Nicaragua, Honduras e Guatemala, paesi in cui regnano violenza e povertà, uomini, donne e bambini continuano comunque a partire senza sosta, decisi, costi quel che costi, a tentare di costruirsi una nuova vita altrove.
Giovane reporter salvadoregno, responsabile del progetto Sala Negra del quotidiano online El Faro (www.salanegra.elfaro.net), uno dei maggiori dell’America Latina, dedicato allo studio dei fenomeni criminali, dal narcotraffico alle azioni delle pandillas, le gang di strada particolarmente diffuse in Centroamerica, Martinez ha compiuto più volte questo «viaggio» insieme ai migranti, di cui ha raccontato la tragica epopea in La bestia (Fazi, pp. 320, euro 16), il nome con cui è identificato il treno della speranza che attraversa il Messico, condividendo con loro pericoli, speranze ed illusioni. Un libro, di un’estrema lucidità e di grande potenza narrativa, che non smarrisce mai il punto di vista dei migranti e la natura irriducibile e per certi versi drammaticamente entusiasmante del loro «sogno» che è valso a Martinez il Premio internazionale Marisa Giorgetti, nella sezione letteraria, giunto alla sua terza edizione e dedicato a scrittori e personalità che si sono occupate di migrazioni, del dialogo tra culture diverse e della salvaguardia dei diritti umani che il giornalista ha ritirato nei giorni scorsi a Trieste.
Il titolo della prima edizione del suo libro era «Los migrantes que no importan»: perché la sorte di questi migranti non interessa a nessuno?
Per molti versi, gli immigrati centroamericani che attraversano il Messico per cercare di raggiungere gli Stati Uniti, sono delle «vittime perfette», le cui tragiche traiettorie esistenziali non sembrano interessare a nessuno. In Messico non votano e perciò per i politici sono invisibili; viaggiano aggrappati ai treni e lontani dai centri abitati e hanno pochissimi contatti con la popolazione locale; inoltre loro stessi cercano di tenersi a distanza da ogni rappresentante delle autorità, visto che la polizia è collusa con le bande criminali. A tutto ciò si deve aggiungere che anche le istituzioni dei paesi di provenienza non sono interessate a cambiare la situazione: il Pil di Salvador, Honduras, Guatemala e Nicaragua dipende quasi integralmente dalle rimesse inviate dagli immigrati che si sono stabiliti negli Usa. Perciò, i governanti di quei paesi preferiscono permettere che chi affronta il viaggio rischi di essere rapito o stuprato, piuttosto che mettere in discussione quella che è la principale voce dell’economia nazionale.
Questi migranti fuggono dalla violenza e dalla povertà, ma in Messico affrontano pericoli altrettanto grandi, se non peggiori. Eppure continuano a partire, perché?
Molti cercano di sottrarsi alla fame, ma ci sono anche altri che si mettono in viaggio per quello che è il legittimo desiderio degli uomini di cambiare la propria vita. Alcuni, più che partire, fuggono per paura delle gang o perché hanno subito minacce da parte dei criminali o dei poliziotti. Ci sono persone che decidono di tentare la sorte dopo aver visto uccidere un amico o un famigliare. In molti casi si tratta di gente che vive in zone dominate da pandillas come la Mara Salvatrucha, il Barrio 18 o qualche altro «cartello» del crimine. Perciò, i migranti che partono da queste regioni sono spesso disposti ad affrontare l’inferno che li attende in Messico perché vengono da un inferno ancora peggiore. Molti di loro finiranno però per subire una tale violenza e affrontare sofferenze che in realtà non avevano mai provato nella loro vita: lo fanno convinti che si tratti di un dolore passeggero, quasi un tragico biglietto d’accesso per quella che considerano come la «stanza del tesoro»: gli Stati Uniti.
I narcos messicani si stanno riconvertendo nel «traffico» di migranti: quali dimensioni ha assunto quella che lei definisce come l’«industria umana del crimine»?
Si tratta di un circuito criminale molto esteso che comprende il «lavoro» dei coyote che guidano i migranti nell’attraversamento delle frontiere, e pagano una tassa al cartello che controlla quella zona; i rapimenti e le estorsioni compiuti ai danni degli immigrati; la «tratta delle bianche» e la gestione dei bordelli dove le donne migranti sono tenute prigioniere dai trafficanti di esseri umani. Questo «mercato» terribile è cresciuto a tal punto che ormai è in gran parte controllato dai cartelli del narcotraffico e soprattutto dai Los Zetas, il più spietato tra questi network criminali fondato da alcuni ex appartenenti ai corpi speciali dell’esercito messicano. Quanto alle proporzioni economiche di tutto ciò, si possono comprendere citando i dati di un’indagine svolta alla fine del 2009 dalla Comisión Nacional de los Derechos Humanos messicana: in soli sei mesi Los Zetas avevano ottenuto oltre 25 milioni di dollari dai migranti che avevano sequestrato o taglieggiato in vario modo. Stiamo parlando di un vero impero economico che offre profitti altissimi a fronte di quasi nessun rischio, visto che questi immigrati senza documenti non denunciano quasi mai i loro aguzzini.
A partire dagli anni Novanta, le autorità statunitensi hanno cominciato a costruire quel «muro» che oggi separa gli Usa dal Messico. Con Barack Obama è cambiato qualcosa?
Intanto va detto come sia assurdo pensare che un muro, per quanto alto e consistente sia, possa dissuadere davvero chi ha già subito ogni sorta di violenza nell’attraversare il Messico. L’unico risultato che si è ottenuto è quello di moltiplicare i morti tra coloro che cercano di entrare illegalmente negli Usa, non certo di fermare la marea umana che arriva dal Centroamerica. Gli statunitensi non uccidono nessuno direttamente, ma il solo spazio della frontiera in cui non hanno costruito la barriera è in mezzo al deserto, senza un solo riparo né acqua; perciò lì vige una sorta di selezione maturale: chi sopravvive può entrare, gli altri ci rimettono la vita. Barack Obama aveva annunciato una grande riforma delle leggi sull’immigrazione, ma c’è riuscito solo in parte, anche perché ha contro una gran parte del Congresso e dell’opinione pubblica: negli Stati Uniti, come credo accada anche in Europa, chi cerca di dire delle cose ragionevoli sui migranti e non parla solo di repressione è trattato come un appestato.
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