Visioni

I racconti di Sasà, dai Quartieri spagnoli a Genet

I racconti di Sasà, dai Quartieri spagnoli a GenetSalvatore «Sasà» Striano in «Il giovane criminale»

A teatro Infanzia e adolescenza napoletana, le esperienze di piccola delinquenza fino agli anni in carcere. Salvatore Striano mette in scena in «Il giovane criminale» la sua personale storia di formazione in cui nulla viene omesso

Pubblicato quasi 6 anni faEdizione del 12 gennaio 2019

Davvero è una esperienza fuori della norma stare ad ascoltare, incantati ma ben presenti, il racconto che Salvatore Striano, detto Sasà, fa della propria vita, dall’infanzia e adolescenza nei Quartieri spagnoli di Napoli, alle esperienze di piccolo crimine, fino al carcere. E oggi al teatro. Anzi da parecchio tempo, visto che Sasà proprio in carcere ha cominciato a giocare (jouer direbbero i francesi, che significa appunto anche recitare) col teatro. A Rebibbia nelle esperienze condotte da Fabio Cavalli, e poi anche nel film pluripremiato che vi girarono i fratelli Taviani, Cesare non deve morire, dove egli interpretava Bruto, l’assassino di Cesare quando questi stava per diventare tiranno a Roma.

DA ALLORA, libero per aver concluso i suoi conti con la giustizia, l’attore di film ne ha girati tanti (il primo era stato il leggendario Gomorra di Matteo Garrone), ma il teatro è rimasto per lui una passione profonda, o anche qualcosa di più: quasi il motore pensante della sua vita, e della sua condotta. Ne è prova lo «spettacolo» che periodicamente l’attore riprende, e che presenta in questi giorni a Roma (all’Off off di via Giulia, oggi e domani le ultime due repliche).

IL TITOLO, sommessamente ma con chiarezza, indica già una direzione di lettura: Il giovane criminale. Genet/Sasà. E quella chiamata in causa del grande scrittore e commediografo francese non risulta affatto peregrina, così come non suona strumentale o puramente «accattivante». Perché quella che Sasà ci racconta è evidentemente la sua propria personalissima storia, ambientata dove si è svolta, e appena arricchita di particolari coloriti. È una storia di formazione di cui nulla viene omesso. La bellezza narrativa è nel percorso in cui scelte, necessità, incidenti e accidenti si mescolano e si integrano riuscendo a trasformare un possibile finale «nero» in una favola del tutto aperta, come è l’attuale condizione di Sasà attore, narratore e soprattutto persona. Così come appare allo spettatore che vi assiste: senza infingimenti o stratagemmi, con tanta sincerità e un senso fortissimo dell’autocoscienza.

QUESTO ce lo rende, a qualche punto del racconto, davvero la personificazione del pensiero di Genet, e il titolo scopre la sua derivazione da quel L’enfant criminel che l’autore francese scrisse nel 1948, quando, ottenuta la commissione di un articolo/saggio, sicuramente grazie a Sartre, da parte della prestigiosa e schieratissima Nouvelle Revue Française, se lo vide invece rifiutare per il suo «estremismo». Quel quieto, ragionato racconto genetiano, rivive e prende concreto corpo in quello sobrio eppure lancinante di Sasà Striano, che senza retorica e senza compiacimento, ci guida alla scoperta della sua esperienza e della sua «formazione».
Assolutamente «genetiana», e così lontana da caccole e manierismi e furbizie che solitamente gravano e respingono l’ascoltatore, anche sulle scene delle migliori intenzioni. Qui, per una volta, la simpatia diviene naturale e laica solidarietà.

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