Visioni

I quattro elementi della natura nel «musical» sull’immortalità

I quattro elementi della natura nel «musical» sull’immortalità

Intervista Massimo D’Anolfi e Martina Parenti raccontano il loro «Spira Mirabilis»

Pubblicato circa 8 anni faEdizione del 20 settembre 2016

Il Giappone, i Lakota, la Svizzera protestante e una chiesa cattolica: è un «film mondo» Spira mirabilis, il documentario di Martina Parenti e Massimo D’Anolfi passato in concorso da Festival di Venezia, in sala dal 22 settembre. Un film che indaga i quattro elementi – la terra, l’aria, l’acqua e il fuoco – attraverso il filo rosso della tensione dell’uomo verso l’immortalità, «verso qualcosa migliore di se stesso» dice Martina Parenti.

L’acqua è la medusa immortale instancabilmente studiata dallo scienziato giapponese Shin Kubota, l’aria lo strumento musicale creato da Felix Rohner e Sabina Schärer, il fuoco rappresenta le tribù Lakota negli Stati Uniti, la terra e la pietra sono le componenti del Duomo di Milano, che come la medusa di Shin Kubota si rigenera attraverso il lavoro di restauro e conservazione di una moltitudine di persone.

Il filo rosso che unisce questi elementi è L’immortale di Borges, letto in un cinema dall’attrice Marina Vlady: «Come Spira mirabilis è la storia di un viaggio che torna al punto di partenza», spiega Parenti.
All’elemento della terra era interamente dedicato il precedente documentario della coppia di registi: L’infinita fabbrica del Duomo, isolato ed espanso rispetto alle altre componenti di Spira mirabilis per ragioni produttive ma da sempre pensato – spiega D’Anolfi – «come una sua parte integrale». «È all’interno della ricerca di Spira mirabilis – continua Parenti – che abbiamo pensato la cattedrale di Milano come un’entità che si rigenera e un processo di innalzamento piuttosto che un’istituzione o un luogo cittadino com’era l’aereoporto di un altro nostro documentario, Il castello».

A Venezia, il lavoro di D’Anolfi e Parenti ha suscitato una strana polemica, venendo da più parti accusato di essere troppo ostico per il grande pubblico. «Il nostro lavoro – dice D’Anolfi – è rivolto alle persone, agli spettatori, a cui noi chiediamo di guardare le immagini ponendosi delle domande nuove. Così come noi, nel processo di realizzazione del film, cerchiamo di interrogare le cose in modo diverso dal solito, di porre nuovi interrogativi».                           

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Che nuove domande vi siete posti lavorando a questo film?
D’Anolfi: Rispetto ai nostri lavori precedenti – basati sul conflitto tra le persone e il potere, le istituzioni – siamo partiti da un diverso presupposto: l’aspetto migliore degli esseri umani, non un contrasto ma una tensione verso l’alto.

Questa tensione è osservata all’interno di un rapporto con il «basso», il concreto, il lavoro manuale.
Parenti: Felix e Sabina si sono riconosciuti in Shin Kubota, hanno detto «noi lavoriamo come lui»: tutti loro condividono una quotidianità fatta di lavoro concreto e ricerca continua, senza accontentarsi mai e senza un punto d’approdo, così come il film stesso.
D’Anolfi: I protagonisti e le loro vicende non sono stati selezionati tra una moltitudine di storie possibili: ci sembrava che fossero tutti accomunati dal loro modo di lavorare. Benché non condividano i confini geografici, la lingua e il retroterra culturale, si sono riconosciuti gli uni negli altri.

Come avete trovato i vostri protagonisti?
Parenti: Tutto è partito quando abbiamo letto un articolo su uno scienziato giapponese «innamorato» delle sue meduse. Ci è piaciuta moltissimo la storia di quest’uomo solo, che cerca l’immortalità in degli esseri minuscoli che non hanno cervello, composti soltanto da un cuore e uno stomaco. Così abbiamo pensato che l’aspirazione all’immortalità potesse essere la linea guida del film. A questo abbiamo aggiunto altre persone e cose che avevamo già incontrato e che ci stavano molto a cuore. E così è iniziato il viaggio, basato più su una ricerca di assonanze sentimentali che di un obiettivo preciso.

Nel film è morto importante il lavoro sul suono.
Parenti: Un’altra linea guida di Spira mirabilis sono le martellate che si trasformano in una musica nel lavoro di Felix e Sabina: la dissonanza si trasforma in una melodia, nel canto.
D’Anolfi: Quella sul suono è una ricerca che ha inizio con Il castello e va di pari passo con quella sulle immagini, che prevede progettualmente l’eliminazione della parola. Il dialogo fa progredire la storia, è fonte di narrativa, e gli altri suoni restano in sottofondo. Togliere la parola consente invece ad altre cose di risuonare, di venire in primo piano. Nel caso di Spira mirabilis i suoni e i rumori del lavoro. Il film è anche un musical in cui cantano tutti: Felix, Sabina e i loro strumenti, Shin con la sua canzone dedicata alla medusa, Marina Vlady sui titoli di coda e anche il Duomo, che è come un concerto delle tante persone che ci lavorano costantemente.

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