«I predatori non sono il diavolo»
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«I predatori non sono il diavolo»

Intervista A partire dalla vicenda di JJ4, esemplare per raccontare la questione ecologica che stiamo vivendo, una chiacchierata con Matteo Righetto, conoscitore della montagna e autore del libro «La pelle dell’orso»
Pubblicato più di un anno faEdizione del 20 luglio 2023

Tutto il dibattito che si è sviluppato in Italia negli ultimi tre mesi e mezzo intorno alla vicenda dell’orsa JJ4, condannata alla soppressione (poi sospesa) dopo l’aggressione mortale nei confronti del giovane Andrea Papi, manca di «cultura ecologica, un pre-requisito» sottolinea Matteo Righetto. Scrittore, profondo conoscitore della montagna e della cultura alpina, dieci anni fa ha pubblicato per Tea La pelle dell’orso, romanzo d’avventura e racconto di formazione che ruota intorno al rapporto tra la comunità di un villaggio ai piedi delle Dolomiti e il grande carnivoro, ambientato sul finire degli anni ’60.

Cosa è mancato nel discorso intorno agli orsi e alla loro pericolosità?

L’ecologia all’interno di ogni ecosistema riguarda una interrelazione sistemica tra attori, presenze umane e non umane: questa consapevolezza non c’è, una cultura ecologica che comprenda cioè il valore aggiunto di un territorio con maggiore biodiversità. Mancano le basi culturali, questo in generale nel nostro Paese. Partendo dal fatto tragico, è mancato equilibrio, lungimiranza, conoscenza del territorio, è mancata anche una buona comunicazione. Tutto questo ha lasciato spazio a retaggi culturali, ideologismi, fanatismi, all’ignoranza che si traduce in polarizazione. Qualcuno ha fatto campagna elettorale contro l’orso e profittando di un evento tragico. Questi elementi hanno contribuito ad acuire uno scontro che non dovrebbe esserci, posto ostacoli a un dialogo necessario e urgente.

Perché necessario e urgente?

Perché riguarda, appunto, la questione ecologica che stiamo vivendo. Servirebbe lucidità, per affrontare in maniera sana e non tossica un argomento che invece così si è intossicato ancora di più. Dovremmo necessariamente ragionare in termini di co-evoluzione. Non si può immaginare di eliminare il pericolo, cioè dei rischi che sono legati ad un determinato ambiente, naturalmente diversi tra chi va per boschi e chi si muove in città. Purtroppo, i grandi predatori sono oggetto di una demonizzazione antica, che ha origine nella dottrina della Chiesa cattolica, anche se siamo di fronte ad esseri che non amano essere visti, che sono molto meno pericolosi rispetto a insetti che possono provocare danni anche irreversibili. È una paura ancestrale che va governata, va compresa per poterla risolvere. Il passaggio è questo: la discussione però si ferma al punto di partenza, perché non vi è dialogo.

Come si costruisce questo dialogo?

Chi vive in ambienti a contatto con questi mammiferi non può essere irriso come zotico. Scientificamente, dal punto di vita zoologico, etologico, abbiamo il dover di fare cultura, senza denigrare o deridere chi vive questa paura, altrimenti non ci si incontra mai. Lo diceva già Alex Langer. Orsi o lupi hanno una loro dignità, dobbiamo trovare il modo di una coesistenza pacifica, il che non significa escludere incidenti o attacchi, che possono accadere. Pacifico significa per me un rispetto dell’ambiente naturale, anche del selvatico. Questo rispetto fa sì che di fronte a un incidente non si debbano fare crociate contro il selvatico, perché questa sarebbe la stessa visione che mercifica il suolo e danneggia l’ambiente, con una visione antropocentrica assoluta di questo Pianeta.
Nel 2013 hai pubblicato il tuo libro in cui affronti la questione dell’orso, il cui protagonista è un animale chiamato «el diaòl».
Allora non potevo immaginare che si sarebbe potuta verificare questa tragedia. Mi interessava, però, affrontare il tema del rapporto tra selvatico e società, per affrontare un’interpretazione che fa del selvatico un capro espiatorio, il male di tutto, tanto che si pensa che nel momento in cui si elimina l’orso hai eliminato tutti i problemi, sociali e privati. È un tema millenario quello di identificare il nemico. L’orso, poi, ha sempre rappresentato le paure più ancestrali della natura umana: per questo è uno degli animali che in me destano maggior meraviglia, maggior stupefazione, un vero fascino, e proprio per queste caratteristiche legate all’antropologia, che individuano in questo splendido animale un essere diabolico. Sappiamo bene che si tratta di una forma di deresponsabilizzazione, che nel presente sta portando a derive ideologiche e politiche pericolose, il fatto di non assumersi mai responsabilità, attribuendo sempre ad altri la responsabilità di ciò che accade, fa sì che finiamo col cadere tutti a terra, con gli alberi di Vaia. L’orso si presta anche a una narrazione della società odierna come società del pericolo. E lo stesso vale per il lupo.

C’è però un colpo di scena nelle ultime pagine. L’orso muore, ma questo accade il 10 ottobre 1963. Il giorno prima c’era stato il disastro del Vajont. Sessant’anni fa.

Il 9 ottobre 1963 è uno spartiacque nella storia del Paese. Così, intorno a quell’episodio, nel mio romanzo c’è una presa di coscienza del giovane protagonista di fronte a questa immane tragedia, che sposta gli equilibri e ogni convinzioni. Al fucile sostituisce la pala. Mette giù uno strumento di offesa per abbracciarne uno di solidarietà. C’è un ribaltamento totale, di tutte le certezze. In lui e nel lettore. E poi c’è questo svelamento della verità: Domenico capisce che in fondo l’orso non era affatto un problema, il problema si nascondeva altrove, nelle azioni di ognuno di noi, non solo nelle opere, nei manufatti, ma anche nelle relazioni umane. È nell’ego, nella volontà di dominio, di ricchezza, di prevaricazione, che nascono il Vajont e oggi il cambiamento climatico, la guerra. È dalle relazioni umane che possono scaturire il bene e il male. Tutto quanto accaduto in questi mesi sarebbe un’opportunità, per rispetto anche di quel giovane ucciso, per riflettere serenamente su una questione che non riguarda tanto la cittadinanza su un determinato territorio, perché stiamo parlando del bene comune, di una co-evoluzione che se portata avanti con ragionevolezza porterà benefici per chiunque. Quando parliamo di una catena ecologica sappiamo che non funziona se tu decidi, ideologicamente, di togliere degli anelli.

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