I poemi di luce di Bellini, precisioni
Antonio Mazzotta, "Con Giovanni Bellini", Officina Libraria Dodici "esercizi di lettura" sull'opera di Giovanni Bellini: nuovo smalto a una grande tradizione di studî (Longhi, Bellosi) vittima di revisionismi e confusioni
Antonio Mazzotta, "Con Giovanni Bellini", Officina Libraria Dodici "esercizi di lettura" sull'opera di Giovanni Bellini: nuovo smalto a una grande tradizione di studî (Longhi, Bellosi) vittima di revisionismi e confusioni
Giovanni Bellini non fu soltanto uno dei pittori più dotati della sua epoca (addirittura «il migliore di tutti», secondo Albrecht Dürer), ma anche «uno dei grandi poeti d’Italia». Così lo definì Roberto Longhi in un passo memorabile del suo Viatico e non vi è dubbio che Bellini fu poeta vero e profondo, capace di trasfigurare l’umano e di naturalizzare il divino, di comporre inni sacri ed elegie silenziose. La pittura di Bellini è innanzitutto poema della luce, intesa come alito di vita che soffia in ogni direzione e infine si raggruma sulla superficie mutevole delle cose. Da qui i dolorosi tramonti e le aurore rosate, le ombre placide sui campanili di paese, i dolci declivi coperti di bruma: un sentimento del tempo e dei luoghi che è poi l’essenza più struggente della lirica belliniana.
Non si conosce l’anno di nascita di Giovanni, una lacuna forse trascurabile di fronte all’universalità della sua arte, ma che ha suscitato un dibattito ormai secolare e a tratti perfino ideologico. La questione non è banalmente anagrafica, ma di stabilire i tempi precisi in cui la stella di Bellini sorse e maturò, soprattutto rispetto all’ascesa imperiosa del cognato Andrea Mantegna. Si tratta cioè di intendere chi fosse Bellini sul 1460, quando Andrea si accingeva a diventare il pittore dei Gonzaga, dopo quindici anni di trionfi a Padova. Un nodo storiografico di assoluta rilevanza e anzi tra i più decisivi per comprendere il nostro Quattrocento pittorico. Negli ultimi decenni ha prevalso l’idea che Bellini fosse molto più giovane di Mantegna, al punto da esordire quando questi si trasferiva a Mantova, con la fama indiscussa di primo pittore d’Italia. Una visione alquanto singolare e ben lontana da quella di Longhi e di altri studiosi, tra cui Rodolfo Pallucchini e Giles Robertson, ovvero gli autori delle due migliori monografie belliniane tutt’ora esistenti.
Il problema non è tanto quello di contraddire una così illustre tradizione critica, perché nella scienza non dovrebbe mai esistere il delitto di lesa maestà, bensì il rischio concreto di alterare «il senso dei rapporti provati dal materiale storico», secondo le parole sempre acute di Carlo Volpe. In linea teorica nulla vieta che Bellini possa essere nato dieci anni dopo Mantegna, se non fosse che tutte le opere più precoci di Giovanni (appunto il «materiale storico» a cui alludeva Volpe) si spiegano soltanto come reazioni a caldo a quanto andava elaborando lo stesso Andrea, sulla scia di Donatello, nel corso degli anni cinquanta. Ritardare gli inizi di Bellini verso la soglia del 1460 significa di fatto ridimensionare il suo reale peso storico, condannandolo al rango di epigono subalterno ed emulo del genio altrui, ma anche fraintenderne la vocazione primigenia, che fu quella di rifondare la pittura su valori alternativi rispetto al cerebrale feticismo archeologico di Mantegna e dunque di inventare una modernità diversa, più sensibile e aperta a les raisons du cœur.
Per fortuna non sono mancate voci contrarie a questa distorsione della giovinezza di Bellini e fra tutte vale la pena di ricordare quella davvero autorevole e quantomai lucida di Luciano Bellosi. È su questa linea di resistenza a un troppo placido conformismo che si pone Antonio Mazzotta col suo libro intitolato Con Giovanni Bellini Dodici esercizi di lettura, edito da Officina Libraria (pp. 392, 200 ill., € 39,00). Il volume, che si presenta con una veste assai curata e un ricco apparato illustrativo quasi tutto a colori, raccoglie una serie di materiali già pubblicati ed eterogenei, frammisti a testi del tutto inediti. La giovane età dell’autore non consente di guardare a questa silloge come a un punto di arrivo celebrativo, poiché si tratta piuttosto di un momento di verifica, un resoconto necessariamente parziale di una ormai solida militanza nel campo degli studi belliniani, spesa in valorosa controtendenza rispetto alla vulgata dominante.
Premetto che non tutte le proposte mi convincono appieno, per esempio faccio fatica a riconoscere la mano di Bellini nella tavoletta con Sant’Orsola e compagne delle Gallerie dell’Accademia di Venezia, nonostante i pareri favorevoli espressi in passato da Longhi e Pallucchini. Bisogna comunque riconoscere a Mazzotta il merito di aver fornito nuovi argomenti e alcuni dati oggettivamente rilevanti, che non potranno essere ignorati nel dibattito futuro. È il caso dell’ipotesi di datazione dei nove teleri destinati in origine alla Scuola di San Giovanni Evangelista a Venezia, persuasivamente collegati a una grossa somma di denaro elargita a Jacopo Bellini il 25 febbraio 1452 (more veneto, dunque 1453). Un riferimento cronologico di estrema importanza, specialmente se si accetta di scorgere in questo ciclo assai deperito (come peraltro facevano conoscitori del calibro di Berenson e Zeri) la collaborazione tra lo stesso Giovanni e il fratello Gentile, già semiautonomi all’interno della bottega paterna.
Non meno importante è il fatto di aver disinnescato, si spera per sempre, uno degli equivoci più deleteri della Storia dell’Arte, ovvero l’esistenza di una presunta iscrizione col millesimo 1472 sulla Pietà di Palazzo Ducale. Mazzotta dimostra che tale informazione, del tutto incongrua rispetto a quanto rivela lo stile, dovrebbe spiegarsi con un banale fraintendimento di un passo delle Maraviglie dell’arte di Carlo Ridolfi (1648), male interpretato nel Settecento da Antonio Zanetti. Una vera liberazione per coloro che credevano impossibile collocare un dipinto tanto acerbo, ancora infarcito di crisografie jacopesche e metallurgie padovane, a ridosso della modernissima pala di Pesaro. Mi sembra anzi il sintomo di una certa decadenza epistemologica della disciplina che il paradigma interpretativo vincente negli ultimi anni si sia potuto fondare su dati così malcerti, eppure spacciati per acquisiti. Lo stesso può dirsi per un altro degli elementi che più falsificano la lettura degli esordi belliniani, ovvero la pretesa identificazione della pala Gattamelata al Santo di Padova, giustamente messa in discussione da Mazzotta, seguendo una pista aperta da chi scrive.
Il volume non raccoglie soltanto interventi dedicati alla giovinezza di Bellini, ma anche alla sua tarda attività. Notevoli sono i saggi dedicati al Ritratto di Gabriele Veneto (Gabriele Dalla Volta) e alla Madonna Dudley, due opere databili nel corso del primo decennio del Cinquecento e oggi conservate in collezione privata. Mazzotta ricostruisce, con grande erudizione e intelligenza, la storia sfortunata di questi due capolavori «dimenticati» e purtroppo fraintesi anche nel recentissimo «catalogo ragionato» di Giovanni Bellini, pubblicato a triplice firma (Mauro Lucco, Peter Humfrey e Giovanni C.F. Villa) da ZeL Edizioni. È soprattutto la Madonna Dudley, col suo respiro pienamente classico, a dimostrare una volta di più che Bellini fu uno dei pochi maestri quattrocenteschi a superare indenne il passaggio del secolo, forse perché ebbe il coraggio, come ben scrisse Francesco Aglietti nel 1815, di scendere «dal più elevato poggio della sua gloria per farsi seguace ed imitatore dei discepoli, ed emularne con nuovo ardore i successi».
Giovanni nacque dunque «bizantino e gotico» sotto l’egida del padre Jacopo, eppure finì dialogando alla pari col bardo Giorgione e perfino col primo Tiziano. Una parabola umana e artistica senza confronti, scaturita dall’incontro d’amore, durato quasi settant’anni, tra Giovanni Bellini e la pittura.
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