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«I più vulnerabili ormai sono esclusi dalle cure»

«I più vulnerabili ormai sono esclusi dalle cure»Struttura di Emergency in Afghanistan

Emanuele Nannini (Emergency) «I campi per migranti sono bombe a orologeria: non consentono il distanziamento sociale né le più basilari norme igieniche o i tamponi»

Pubblicato più di 4 anni faEdizione del 8 aprile 2020

Un ambulatorio bombardato a Tripoli lunedì scorso. Solo a marzo 27 strutture sanitarie danneggiate in Libia per la vicinanza alla linea degli scontri, mentre la popolazione fa i conti anche con la pandemia e i migranti continuano a rimanere chiusi nei campi di detenzione: «Ci abbiamo lavorato per più di dieci anni, la situazione è tragica. Le due fazioni hanno inasprito i combattimenti, c’è molta pressione su Tripoli, il paese è nel caos» spiega Emanuele Nannini, vicedirettore del Field operations department di Emergency.

È possibile contenere il Covid-19 a Tripoli con la guerra civile in corso?
Un paese fragile come la Libia si avvicina al baratro. La guerra fa saltare i regolatori sociali e le tutele, tutti i paesi in conflitto hanno fasce di popolazione vulnerabile che non hanno più accesso ai servizi, sia per i rischi legati agli spostamenti durante i combattimenti sia perché le prestazioni cessano. La pandemia, la limitazione della circolazione e l’impossibilità di far arrivare materiali fa sì che i più vulnerabili si trovino esclusi da qualsiasi assistenza.

I migranti continuano a partire.
La Sanità con la pandemia non regge più. Le notizie che abbiamo dall’Afghanistan, dal Sudan ci dicono che dei sistemi già fragili collassano completamente. Chi può accedere alle strutture a pagamento va avanti, gli altri sono esclusi del tutto dalle cure. In Afghanistan, ad esempio, il 70% della popolazione vive in zone rurali, la gran parte già faceva fatica a curarsi perché doveva fare lunghi viaggi per arrivare a presidi di livello medio. Una volta arrivati era complicato accedervi per i combattimenti, i posti di blocco e le lotte tra fazioni. Con la pandemia molte strutture sono state chiuse oppure sono stati ridotti i servizi e il governo ha messo restrizioni nei movimenti: l’accesso ora è pari a zero. In più molti operatori umanitari sono bloccati e il supporto delle ong sta venendo meno.

Quali difficoltà state avendo?
I paesi in cui operiamo sono chiusi, non riusciamo a portare dentro né a far uscire i nostri sanitari. Man mano che gli aeroporti chiudevano abbiamo chiesto se volevano tornare, più di cento hanno scelto di rimanere e i nostri ospedali sono rimasti aperti. Prima del lockdown abbiamo potenziato gli approvvigionamenti per affrontare la crisi. Altre ong però non hanno più personale in loco o hanno finito le scorte.

La crisi ha fermato i conflitti?
In alcune aree è stata decisa una tregua ma in Libia, Afghanistan, Yemen, Iraq non è accaduto. I feriti continuano ad arrivare, il supporto chirurgico ha la priorità perché una pallottola uccide più velocemente del virus. Andiamo avanti a vista, abbiamo fine giugno come tempo massimo per continuare a operare senza nuovi rifornimenti.

I campi, in Libia come in Grecia, possono reggere all’impatto del Covid-19?
Sono bombe a orologeria. Le condizioni non consentono il distanziamento sociale né le più basilari norme igieniche. Campi formali, creati a opera d’arte, forse posso dare qualche garanzia ma negli aggregati informali è impossibile gestire la situazione. Ma tanto il mondo farà fatica a sapere cosa succede lì dentro, posti dove non si fanno tamponi né test: le persone morivano prima, adesso di più senza che l’opinione pubblica si renda conto del danno umano in corso.

Cosa insegna la pandemia?
Guerre e povertà sono sparite dall’attenzione internazionale. Quando usciremo di nuovo in strada troveremo un mondo che ha lasciato indietro i più deboli. Eppure la lezione è che o stiamo tutti bene o non sta bene nessuno. Il sistema sanitario non deve essere un privilegio per chi se lo può permettere.

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