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I più penalizzati dalla pandemia sono i meno tutelati dal governo

I più penalizzati dalla pandemia sono i meno tutelati dal governo

Scenari La disoccupazione e il precariato, per donne e giovani, preparano pensioni da fame. Il Piano del lavoro, e una pensione "di garanzia", possono invertire la tendenza

Pubblicato circa 3 anni faEdizione del 29 ottobre 2021

Le dichiarazioni in favore delle donne e dei giovani – i più penalizzati dalla pandemia: disoccupazione, precarietà, inattività –, nella riflessione che accompagna il varo del Documento Programmatico di Bilancio per il 2022, si sprecano. Ma poi per quanto riguarda una maggiore tutela pensionistica ci si dedica piuttosto a costosi interventi “a pioggia” (le Quote) e invece ben poco a misure di cui appunto possano beneficiare le donne e i giovani.

Eppure, poiché la situazione pensionistica è lo specchio dei passati percorsi occupazionali assai accidentati e tormentati per giovani e donne, se il governo ha inserito a monte del Pnrr le famose “condizionalità” (che prevedono che almeno il 30% delle nuove assunzioni li coinvolga), vuol dire che ha la consapevolezza della gravità della situazione. Pertanto non se la può cavare invitando i giovani ad avere “il coraggio di rischiare”, piuttosto dovrebbe essere conseguente. Sotto due profili.

Il primo riguarda la necessità di darsi un vero e proprio Piano per la creazione diretta di occupazione. Se è vero ciò che gli economisti ci insegnano, e cioè che la crescita è il frutto della somma dell’azione di due fattori: tasso di occupazione e tasso di produttività, poiché in Italia il basso tasso medio di occupazione complessiva, femminile e maschile, è interamente dovuto all’incredibilmente bassa occupazione femminile (perché il tasso medio di occupazione maschile risulta abbastanza in linea con gli standard europei), è la mancata occupazione femminile il vero handicap per la crescita.

La prospettiva va dunque rovesciata: non “alimentare la crescita sperando che ne scaturisca lavoro”, ma “creare lavoro per attivare la crescita, cambiandone al tempo stesso qualità e natura”. Non ci si può limitare a ricorrere prevalentemente a misure incentivanti volte a stimolare indirettamente la generazione di lavoro (incentivi fiscali, decontribuzioni, bonus, trasferimenti monetari, riduzioni del cuneo fiscale, ecc.), ma occorre adottare “piani diretti di creazione di occupazione” facendo di “programmazione” e ”capacità progettuale” le vere parole chiave.

Si potrebbe cominciare “condizionando” alla finalità della generazione di occupazione addizionale la mole di risorse che il Documento Programmatico prevede di erogare alle imprese in modo “incondizionato”: 4,1 miliardi di euro per il rifinanziamento del pacchetto 4.0, 2 miliardi per il caro bollette, almeno 3 miliardi per la riduzione dell’Irap, 1,9 miliardi di cancellazione del contributo unico per l’assegno al nucleo famigliare, ecc., e tutto ciò dopo che nei due anni pandemici 2020-2021, dei 180 miliardi di euro erogati per far fronte all’emergenza, 100 miliardi sono stati destinati alle imprese e alle famiglie e solo 40-50 al lavoro.

Il secondo profilo è strettamente connesso al precedente: data la relazione di “specchio” tra percorsi lavorativi e situazione pensionistica accentuata dal sistema di calcolo contributivo, se si è lavorato per periodi limitati (magari per non respingere il desiderio di maternità/paternità che dovrebbe essere considerato una funzione sociale), con retribuzioni più basse, con ripetute intervalli tra lavoro e non-lavoro, in condizioni di precarietà, al momento del ritiro la pensione che ne risulta non può che essere esigua, con il rischio per i più giovani che non raggiungano mai la soglia contributiva minima necessaria ad andare in pensione.

Per questo, nell’attesa che un Piano per la creazione di occupazione faccia maturare le condizioni per cambiamenti radicali, nell’immediato va istituita una “pensione di garanzia” per i giovani, una nuova forma di integrazione al minimo con un importo garantito variabile con la durata dell’attività e l’età del ritiro, che non costerebbe nulla nei prossimi anni e manifesterebbe un (limitato) aggravio sui conti pubblici solo a partire dal 2040 (quando la “gobba” della spesa pensionistica sarà stata quasi azzerata per l’entrata a pieno regime del sistema contributivo).

Peraltro, tutto ciò avrebbe il pregio di ripristinare lo “spirito” originario della 335 (la legge che istituì nel 1995 il sistema contributivo) che saggiamente parla non di equità “attuariale” (in base alla quale la pensione dipende unicamente da quanto si è versato e dall’età in cui ci si ritira), ma di equità “semiattuariale” e di conseguenza prevede il mantenimento di principi redistributivi al proprio interno, a cui corrisponderebbe la “pensione di garanzia” per i giovani.

Lo “spirito” originario della 335 è stato alterato dalla legge Fornero che ha immaginato una stretta applicazione del principio di equità “attuariale”, dimenticando che uno schema puramente attuariale (uno schema in cui ricevi di pensione esattamente il frutto di quanto hai risparmiato in contributi) risulta anche equo sul piano “sostanziale” solo se è tale il luogo in cui si formano le prestazioni pensionistiche future, ovvero il mercato del lavoro.

In realtà, chi ritiene che la previdenza debba basarsi unicamente su un rigido meccanismo di contro-prestazione (senza nessuna forma, neppure minima, di redistribuzione o di tutele in qualche modo garantite) sta implicitamente accettando come “giusta” ed immodificabile qualsiasi situazione critica o diseguaglianza che si crea nel mercato del lavoro.

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