Nell’inaugurare la sua rubrica sull’ «Irish Press», nel 1962, Brian Friel raccontò di essere in possesso di due certificati di nascita con date diverse: «Probabilmente sono due gemelli in uno» concludeva, portando l’attenzione sul tema delle identità composite con la quale i suoi spettatori avrebbero fatto spesso i conti, almeno a partire da Philadelphia, Here I Come, l’opera che nel 1965 lo fece debuttare a Broadway. Qui, un giovane in procinto di emigrare per gli Stati Uniti, si presenta sul palco scisso in due personaggi, la sua faccia pubblica e quella privata.

Una scissione che attraversa anche altre opere, inclusa Translations (Traduzioni, 1981), la pièce con la quale Friel, con l’attore Stephen Rea, diede vita alla compagnia teatrale Field Day, inaugurando una sorta di rivoluzione linguistica e politica della scena irlandese. Traduzioni, una storia di personaggi privati di tutto, dalla lingua madre alla terra, è presente nella raccolta dei drammi di Brian  Friel –Teatro Volume 1 (Arcadia & Ricono,  pp. 348 € 22,00, a  cura di Alessandra Ruggiero, curatrice e autrice di alcune traduzioni; altre sono di Riccardo Duranti e di Marta Gilmore, edizioni Arcadia & Ricono). Si va dai monologhi intrecciati di Faith Healer (qui Il guaritore, 1980) e Molly Sweeney (1994) alle opere di carattere più politico, per poi concludere con le riscritture dal russo (in particolare da Chechov), suggerendo, oltre agli elementi di continuità, il potere di rinnovare forme e temi, spesso in maniera spiazzante. Alcuni fili rossi attraversano l’opera, non solo nell’ambientazione delle pièces a Ballybeg (una «piccola città» qualunque, se volessimo tradurne il nome dall’irlandese anglicizzato), ma nella personalità divisa di Friel, che sembra rifrangersi in personaggi sempre in contrasto con se stessi, strappati dalla propria terra e destinati all’esilio, oppure struggenti nella loro incertezza tra il mondo che già conoscono e quello che li aspetta. Succede a Molly Sweeney che, riluttante, si fa operare per riacquistare la vista, ma finisce poi per rigettare il mondo dei vedenti.

Nelle pièces di Friel questi scasati, questi vagabondi, si incontrano spesso, come del resto nel teatro del conterraneo Beckett, e frequenti sono anche i cambi di direzione, il girovagare tra gli stili, le forme e i registri: dalla farsa si passa, a volte bruscamente, alla tragedia, dal tono satirico a quello sentimentale. Traduzioni è, a questo proposito, una pièce  esemplare, e lo è anche nel rappresentare il conflittuale rapporto dei personaggi con la lingua e con il territorio. Dalla lingua latina e greca delle lezioni, si passa all’irlandese fantasmatico che gli abitanti del luogo parlano tra loro (ma gli spettatori li sentono usare sempre l’inglese, ed è questa censura silenziosa uno dei colpi di genio di Friel), mentre i soldati britannici impegnati a tradurre, a riscrivere i luoghi irlandesi per le mappe ufficiali dell’Impero, parlano inglese. Seamus Deane ha parlato, a questo proposito,  di confronto tra l’imperialismo militare e culturale e la ribellione provinciale irlandese. Nel Guaritore, invece, Frank Hardy, sua moglie Grace e il suo impresario mettono in scena lo spettacolo quotidiano di uno scalcagnato guaritore consapevole del fatto che i malati non cercano da lui la guarigione bensì la conferma di essere incurabili.

Il miracolo della rappresentazione (ma, anche, il potere della rappresentazione dei presunti miracoli) è al centro di quest’opera, raccontata attraverso quattro monologhi, forma che allude non tanto all’incomunicabilità quanto alla capacità di ognuno di raccontarsi e raccontarsela.