I pentastellati senza pentagramma
Non so se ce ne siamo accorti ma le elezioni del 4 marzo hanno sancito una straordinaria novità antropologica: per la prima volta, prevale e andrà a governare una forza […]
Non so se ce ne siamo accorti ma le elezioni del 4 marzo hanno sancito una straordinaria novità antropologica: per la prima volta, prevale e andrà a governare una forza […]
Non so se ce ne siamo accorti ma le elezioni del 4 marzo hanno sancito una straordinaria novità antropologica: per la prima volta, prevale e andrà a governare una forza politica che non ha nessun rapporto con la musica.
In passato, tutta la politica, buona o cattiva, ha avuto una musica, buona o cattiva. Forza Italia è nata con un inno e una praise song («Meno male che Silvio c’è»). La Lega ha cercato di cavalcare il folklore in funzione identitaria e localistica e di appropriarsi di figure come Davide Van de Sfroos o Gipo Farassino. I fascisti, non ne parliamo, da «Giovinezza» a «Faccetta nera». I cattolici, a parte «Biancofiore» democristiana, tutto lo sterminato repertorio sacro liturgico e non. E noialtri, comunisti, socialisti, anarchici, gruppettari, non abbiamo fatto altro che cantare da un paio di secoli. L’unica espressione vocale collettiva dei 5 Stelle è stato il famoso vaffanculo di Bologna.
La politica aveva bisogno della musica per dire che la politica è una cosa che si fa insieme – «e siamo tantissimi», cantavano masse sorridenti di berlusconiani; «noi siamo la classe operaia», rispondevano i nostri a muso duro. Idee opposte, musiche incompatibili, ma un sottofondo condiviso in cui anche quelli che lo facevano strumentalmente comunque sentivano il bisogno di dire alla loro gente che politica significa voce, partecipazione, socialità, rapporti fra le persone (persino il bianco fiore democristiano era un «simbolo d’amore»). Polis, insomma.
Certo, ci siamo arrivati per gradi – da quando la Thatcher ha detto che la società non esiste ma esistono solo gli individui, a quando ci siamo talmente innamorati della società liquida che abbiamo cominciato a dire che non esistono le classi ma solo i cittadini, e a disaggregare i luoghi condivisi della politica riducendo la base sociale a audience. La democrazia virtuale dei 5 Stelle è l’espressione più compiuta di un’idea di politica atomizzata e silenziosa (ognuno a casa sua, cliccando senza parlare, o parlando da soli). Ma non è tanto il cattivo uso della tecnologia, quanto proprio l’ideologia di fondo che abolisce la musica: «uno vale uno» significa che esistono solo gli uni, mentre la musica si fa in tanti e l’insieme è più della somma dei singoli.
«L’uomo che non ha alcuna musica dentro di sé», scriveva William Shakespeare, «è nato per il tradimento, per gli inganni, per le rapine. I motivi del suo animo sono foschi come la notte: i suoi appetiti neri come l’erebo». Io per ora sarei meno apocalittico, magari i 5 Stelle sono pieni di individui che la musica dentro di sé ce l’hanno e potrebbero anche farsi venire voglia di condividerla. Però, stiano attenti, e stiamo attenti. Come diceva Shakespeare: «Non vi fidate di un siffatto uomo. Ascoltate la musica».
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