I paradossi di un anniversario
La celebrazione del D-day Si dimentica che la guerra a Hitler non fu vinta a Dunquerke, ma a Stalingrado, e si coglie l’ennesima occasione per appuntare sul petto degli yankeees la medaglia dei salvatori: tutti i servizi giornalistici esordiscono o si concludono con «Le truppe alleate cominciarono il 6 giugno 1944 la liberazione dell’Europa dal nazismo». Finiscono nell’oblio i 20-22 milioni di russi morti in guerra
La celebrazione del D-day Si dimentica che la guerra a Hitler non fu vinta a Dunquerke, ma a Stalingrado, e si coglie l’ennesima occasione per appuntare sul petto degli yankeees la medaglia dei salvatori: tutti i servizi giornalistici esordiscono o si concludono con «Le truppe alleate cominciarono il 6 giugno 1944 la liberazione dell’Europa dal nazismo». Finiscono nell’oblio i 20-22 milioni di russi morti in guerra
E siamo di nuovo alla ricorrenza del “giorno più lungo”, il 6 giugno 1944. Fanfare, cornamuse, cerimonie civili e religiose, finti sbarchi sulle coste francesi, finti lanci di paracadutisti, foto ricordo dei veterani, le trombe che suonano le note del silenzio nei cimiteri di guerra, rinnovata produzione di cartoline ricordo, e tutto il resto. Con il “valore aggiunto” di un paradossale incontro del G8 divenuto G7, per l’esclusione della Federazione Russa. Il convitato di pietra Vladimir Putin, si aggirava ospite sgradito, ma inevitabile.
Gli affari con la Russia non possono fermarsi, anche se Obama lo pretenderebbe. Del resto se ai festeggiamenti prendono parte italiani e ucraini, alleati ai nazisti, oltre ai tedeschi, non si capirebbe perché non dovrebbero essere invitati i russi.
Sicché accade che venga ricevuto in pompa magna,un uomo sul libro paga dei servizi statunitensi, il miliardario ucraino cioccolataio Poroshenko, vincitore di elezioni farsa, dopo la destituzione del presidente Yanukovic, mentre Putin deve stare alla porta di servizio: l’uomo che rappresenta non solo una delle 8 economie più importanti del mondo, il più grande Stato in termini di estensione territoriale, uno Stato che, a dispetto di quanti pretenderebbero di espungerlo dalla geografia e dalla storia d’Europa, è pienamente parte del continente, pur con la sua gigantesca “appendice” euroasiatica.
In questa strana situazione, naturalmente, si esalta il ruolo dell’Unione europea come «fattore di pace»: e si dimentica che dopo l’aggressione alla Federazione Jugoslava del 1999 – la «guerra socialdemocratica» di Clinton, Blair e D’Alema – la guerra è di nuovo nel cuore del continente: l’Unione europea ha tollerato e supportato l’azione dell’Amministrazione statunitense volta a realizzare in Ucraina un colpo di Stato, assistendo inerte, da settimane, ai massacri compiuti dal governo golpista di Kiev con l’ausilio di truppe mercenarie. Come in Siria. Come in molte «rivoluzioni» arancioni o mediterranee. Nella guerra dei Balcani si usò il paradigma della «guerra giusta», con un incessante, fuorviante e stucchevole riferimento al Secondo conflitto mondiale, e dunque i perfidi serbi divennero i nazisti e i poveri kosovari gli ebrei vittime di un «genocidio»: che poi non fosse dimostrato poco importava. A Milosevic furono fatti calzare gli stivali di Hitler, ed egli fu additato come il nuovo mostro da far fuori senza tanti complimenti; il che avvenne, e nel modo più tragico e infame, dopo che i cacciabombardieri «alleati» avevano spianato la Serbia. L’importante era colpire l’immaginazione dell’opinione pubblica, toccare le corde della pietà, e naturalmente sventolare la bandiera della democrazia: che veniva difesa, nel ’99 come nel ‘39.
La stessa bandiera, in queste ultime ore, è agitata da Obama e Cameron, in riferimento all’Ucraina: le celebrazioni dello sbarco in Normandia diventano funzionali all’attacco per ora mediatico e solo parzialmente commerciale, alla Russia. Ma nelle parole sempre più roboanti di un Obama rivelatosi in poltica estera degno del suo predecessore Bush jr., non si esclude il ricorso alle «misure militari».
Insomma, si celebra la fine di una guerra, minacciando una nuova guerra; e si gioca su un doppio piano: la memoria corta e l’uso politico della storia. Le elezioni europee sono già alle nostre spalle, nel disinteresse generale. E sempre di più, davanti a certi discorsi e alle pratiche poste in essere, dobbiamo chiederci dove sia finita quella «Europa dei popoli», perorata da Spinelli (Altiero!), Ernesto Rossi, Eugenio Colorni, nel loro sogno di federalismo democratico e socialista.
Mentre si dimentica che la guerra ad Hitler non fu vinta a Dunquerke, ma a Stalingrado, e si coglie l’ennesima occasione per appuntare sul petto vigoroso degli yankeees la medaglia dei salvatori: tutti i servizi giornalistici esordiscono o si concludono con «Le truppe alleate cominciarono il 6 giugno 1944 la liberazione dell’Europa dal nazismo». Finiscono tranquillamente nell’oblio i 20-22 milioni di russi morti in guerra.
Memoria corta, ma, appunto, disinvolto uso politico della storia: solo ieri Obama ha dichiarato, dopo un grottesco paragone fra la «generazione del 6 giugno» con quella «dell’11 settembre», che allora come oggi gli Stati Uniti sono «il baluardo mondiale della libertà». E, da ultimo, Lech Walesa, a Roma a presentare il film senile di Waida sull’«eroe» di Solidarnosc, dà la sua benedizione a Obama: «È davvero un grande». Se lo dice lui.
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