I paladini dell’antiterrorismo
L'arte della guerra La rubrica settimanale di Manlio Dinucci
L'arte della guerra La rubrica settimanale di Manlio Dinucci
A Tunisi, come a Parigi in gennaio, una manifestazione di popolo che, dicendo «basta odio e morte», rifiuta non solo il terrorismo ma la guerra di cui esso è il sottoprodotto. Al corteo di Tunisi, come a quello di Parigi, hanno partecipato però alcuni dei principali responsabili delle politiche di guerra che alimentano la spirale di odio e morte.
In prima fila Hollande, presidente di quella Francia che ha fino all’ultimo sostenuto la dittatura di Ben Ali, garante degli interessi neocoloniali francesi in Tunisia, che sotto la presidenza di Sarkozy (oggi tornato in auge) ha contribuito con la guerra di Libia alla diffusione del terrorismo. Non a caso gli autori dell’attacco al museo del Bardo sono stati addestrati in Libia. E, accanto a Hollande, c’era a Tunisi il premier Renzi, in rappresentanza di quell’Italia che ha contribuito a incendiare il Nordafrica e Medioriente partecipando alla demolizione dello Stato libico. Operazione per la quale gruppi islamici, prima classificati come terroristi, sono stati armati e addestrati da Usa e Nato, che oggi esprimono a Tunisi il loro appoggio nella lotta al terrorismo.
Presente alla marcia di Tunisi contro il terrorismo anche il vice primo ministro Kurtulmus, in rappresentanza del governo turco che – oltre a fornire anche all’Isis armi e vie di transito per la guerra in Siria e Iraq – ha firmato il 19 febbraio un accordo con gli Stati uniti per addestrare ed equipaggiare ogni anno 5mila «ribelli» (ossia terroristi) «moderati» da infiltrare in Siria, la cui preparazione viene curata da 400 specialisti delle forze speciali Usa.
A fianco della Tunisia contro il terrorismo anche la monarchia saudita, notoriamente primo finanziatore di gruppi terroristici: il suo ministero degli esteri ha inviato un messaggio in cui sottolinea che «i principi di tolleranza della religione islamica proibiscono l’uccisione di innocenti». Mentre Human Rights Watch documenta nel 2015 che «i nuovi regolamenti antiterrorismo, introdotti da Riyad, permettono di criminalizzare come atto terroristico qualsiasi forma di critica pacifica alle autorità saudite», in un paese dove – riporta «The Telegraph» (16 marzo 2015) – vengono eseguite ogni anno circa 80 condanne a morte per decapitazione e molti altri sono puniti con la fustigazione, come il blogger Raif Badawi condannato a 1000 frustate (50 ogni venerdì). Quanto l’Arabia Saudita eviti l’uccisione di innocenti lo conferma nello Yemen, dove sta facendo strage di civili con i suoi cacciabombardieri forniti dagli Usa: in base a un contratto da 30 miliardi di dollari, concluso nel 2011 nel quadro di uno più ampio da 60 miliardi, Washington sta fornendo a Riyad 84 nuovi F-15, con relativo armamento di bombe e missili, mentre procede all’upgrade di altri 70. Con questi e altri cacciabombardieri made in Usa, l’Arabia Saudita e i membri della sua coalizione conducono, in nome del «comune impegno contro il terrorismo», una guerra sotto regia e comando Usa per il controllo dello Yemen, paese di primaria importanza strategica sullo stretto di Bab al-Mandab (27 km) tra Arabia e Africa, da cui passano le rotte petrolifere e commerciali tra l’Oceano Indiano e il Mediterraneo.
E Washington, mentre cerca con tutti i mezzi di bloccare il programma nucleare iraniano, ignora che l’Arabia Saudita ha ufficialmente dichiarato («The Independent», 30 marzo 2015), per bocca del suo ambasciatore negli Usa, che non esclude di costruire o acquistare armi nucleari, con l’aiuto del Pakistan di cui finanzia il 60% del programma nucleare militare. In nome, ovviamente, della lotta al terrorismo.
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