I nuovi Wilco tendono al futuro «ascoltando l’eco del passato»
Musica Jeff Twedy, leader della band americana, parla del nuovo album «Cousin»
Musica Jeff Twedy, leader della band americana, parla del nuovo album «Cousin»
C’è una sottile linea di continuità, tra due album così diversi come Cruel Country (2022) e Cousin, ultima fatica dei Wilco disponibile dal 29 settembre per dBpm Records / Sony Music: ce lo dicono due parole chiave dei rispettivi testi, dead e death. Segni inequivocabili, ma mitigati stavolta da un più ottimista termine ricorrente, save: «La morte è certamente un’ossessione», riconosce Jeff Tweedy, «ma la salvezza e la redenzione sono una preoccupazione altrettanto forte: parlo soprattutto del redimersi agli occhi delle persone che ami e a cui tieni, meritarsi il loro amore. Questo è un tema prominente in tutto l’album, che in questo senso è più simile al precedente di quanto la gente possa pensare».
LA PRIMA impressione, ascoltando Cousin, è in effetti quella di una trasformazione radicale rispetto al pur cangiante sound del passato; la seconda porterebbe ad accreditare il dato al lavoro di Cate Le Bon, fresca di collaborazione con Devendra Banhart e prima figura esterna chiamata a produrre un album dei Wilco dai tempi di Yankee Hotel Foxtrot (2002). Quasi una curatrice, stando a quanto dice il leader della band: «Molti dei pezzi che sono su questo disco risalgono a tre o quattro anni fa. Nel frattempo abbiamo realizzato Cruel Country e il materiale si è accumulato… c’erano circa trenta canzoni nella cartella Dropbox che abbiamo inviato a Cate. Il suo più grande contributo quindi è stato curare la scelta dei brani, sulla base del quadro generale che volevo dare all’album». Una scelta che ha finito per rivelare affinità di intenti e di sensibilità, per una tracklist che rappresenta tanto la visione dell’autore quanto quella della produttrice.
UNA SCELTA che però ha fatto storcere il naso a qualche paladino dell’autenticità folk, proprio per la grande deviazione in termini sonori: «Quello dell’autenticità è un tema interessantissimo, che però il più delle volte viene affrontato dal punto di vista sbagliato, quasi fosse un precetto di purezza affinché la musica continui a suonare come se stessa. Ma i progenitori di questo genere non avevano alcun principio di autenticità: essi erano autentici senza bisogno di pensarci. Il ruolo dell’arte, per me, è rivelare un mondo autentico in quanto esistente, non uno che si è dissolto tanto tempo fa».
Eppure ci sono aspetti dei mondi passati destinati a ritornare ciclicamente nella scrittura: «Writing is remembering» sostiene Jeff, non solo per quanto riguarda i testi ma anche rispetto alla composizione musicale: «Mentre scrivi musica cerchi eccitazione, magia, due note di pianoforte che suonano bene insieme, una progressione di accordi… tutto questo sblocca qualcosa che hai dentro ma che non sapevi fosse lì. Quando componi utilizzi un vocabolario che hai appreso dai dischi, dalla tua fruizione dell’arte, un’esperienza che in quanto tale è una forma di ricordo. Anche se tendo sempre al futuro, a qualcosa di nuovo, mentirei se dicessi che non c’è un’eco del passato in tutto ciò che faccio».
“La morte è certamente un’ossessione, ma la salvezza e la redenzione sono una preoccupazione altrettanto forte: è il tema prominente del disco”
GLI FACCIO NOTARE che, a dispetto dell’accresciuta massa sonora eretta da Cate Le Bon, la sua voce paradossalmente sembra essere in maggior rilievo rispetto al solito, quasi per contrasto: «Non so, sicuramente ho cantato molte canzoni in registri diversi, spesso più bassi rispetto agli altri dischi, ma è divertente che in molti si siano lamentati del contrario, sostenendo che la voce è mixata bassa… forse è il tuo stereo!».
Si discorre, infine, della sua conversione all’ebraismo e del rischio di leggere le opere successive alla luce della sua evoluzione spirituale; Jeff ci tiene a sottolineare come quelli che egli stesso definisce i temi portanti degli ultimi due album siano ben antecedenti rispetto alla conversione: «Quasi tutti i miei album hanno elementi di introspezione e di incomunicabilità; in essi cerco di immaginare quali altri strumenti ho a parte il linguaggio, e la musica è essa stessa un linguaggio, attraverso il quale puoi esprimere cose che non riesci a dire diversamente. In questo disco è lo stesso, ci sono tantissime canzoni che riconoscono la frustrazione ma anche la meraviglia di comunicare. Not saying anything says a lot… potrebbe essere un ottimo slogan per un adesivo da paraurti!».
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