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I nostri antenati in trappola fra le rocce e un neanderthal metropolitano

I nostri antenati in trappola fra le rocce e un neanderthal metropolitanoPablo Echaurren, «Industria litica di precisione (ottica di precisione)», 2021

Interviste Giorgio Manzi, paleontologo, racconta il suo lavoro e fa il punto sulle più recenti acquisizioni; l'artista Pablo Echaurren immagina la sensibilità artistica degli ominidi

Pubblicato 9 mesi faEdizione del 2 marzo 2024

Il saggio Antenati, pubblicato dal paleoantropologo Giorgio Manzi per Il Mulino (pp. 224, euro 16) parte dal cinquantenario della scoperta di Lucy, avvenuta in Etiopia il 30 novembre del 1974, e inanella storie di umani attraverso un taglio narrativo più arioso dell’abituale tono manualistico per cui conosciamo l’autore, che incontriamo presso il Museo di antropologia dell’Università Sapienza di Roma. I quattro protagonisti finali riguardano l’Italia: i crani di Ceprano e Monte Circeo, lo scheletro di Altamura, la mummia Oetzi.

Tra 2023 e 2024 ricorrono anche i trentennali di Altamura e Ceprano…
E il centenario del bambino di Taung, rinvenuto in Sudafrica nel 1924. Nel 1964, inoltre, fu coniata la denominazione di Homo habilis: la prima specie umana. Direi che finalmente possiamo celebrare la scienza delle nostre origini: la paleoantropologia, che due anni fa ha festeggiato il Nobel con Svante Pääbo – mai fino allora durante la premiazione era stata citata la parola «evoluzione» – e lo scorso anno il Balzan con Jean-Jacques Hublin.

Quanto è importante il neanderthal per l’Italia?
Era lui che la abitava. Nelle cassaforti del museo conserviamo i crani di Saccopastore, che hanno rappresentato la principale vetrina internazionale della nostra accademia, tanto che qui sono passati Phillip Tobias, il nomenclatore di Homo habilis, e Donald Johanson, lo scopritore di Lucy. I reperti più notevoli sono stati individuati nel Lazio; Castel di Guido, Ponte Mammolo, Sedia del Diavolo e Casal de’ Pazzi nella stessa Roma, dove troviamo anche l’artista Pablo Echaurren, che si autodefinisce un neandertal metropolitano.

Lo scheletro meglio conservato al mondo potrebbe essere quello di Altamura, ma di scavarlo nemmeno se ne parla.
Alcune istituzioni locali sono più interessate al geosito che al neanderthal. Se lo togliessimo dalla grotta, essa perderebbe il suo primato. Del resto le concrezioni calcitiche non renderebbero facile la rimozione. Fatto sta che si è imposto un preconcetto: quel monumento è intoccabile. Ricordo marce organizzate da Altamura all’esterno della grotta – inaccessibile – con cartelli che mi accusavano di volere decapitare Ciccillo, come quel neanderthal è soprannominato. Furono bloccati dei finanziamenti che stavamo per ottenere, così abbiamo dovuto redirezionare le attività. Nell’ultimo decennio abbiamo comunque acquisito informazioni sullo scheletro, datandolo a 150 mila anni fa.

Se fosse rimosso?
La scienza potrebbe studiare un reperto graziato da tre eccezionalità: l’antichità; la completezza – un caso unico, non raro-; l’arcaicità. La ricostruzione del cranio, ottenuta montando al computer le riprese delle due metà effettuate in grotta – superficiali a causa delle concrezioni -, ha rivelato caratteristiche sorprendentemente arcaiche.

Sappiamo come sia avvenuta l’evoluzione dei neanderthal in Europa per merito del “modello di accrescimento” proposto da Hublin, grazie al quale possiamo prevedere quali morfologie trovare in ciascuna fase di uno sviluppo sequenziale. Ebbene, Ciccillo risulta addirittura più arcaico della sua pur notevole antichità: il cranio di Saccopastore, per esempio, anche se quasi coevo mostra tratti certamente più neandertaliani.

Come lo spiega?
L’Italia è una penisola chiusa dalle Alpi: probabilmente rappresentava un cul-de-sac. I rilievi sopraorbitali dell’uomo di Altamura lo collocherebbero prima dei preneandertal di Sima de los Huesos. Però ha solo 150 mila anni, non 430mila. Parlerei di «attardamenti» morfologici rispetto a quanto succedeva contemporaneamente in Europa. Il percorso dell’evoluzione si avvicina sì alla forma di un cespuglio, ma particolarmente aggrovigliato. Anche su Argil, a Ceprano, notiamo qualcosa di simile.

Quindi la datazione più recente da lei avanzata non lo sminuisce?
Al contrario. Come scrivo, ha conferito a Argil un’importanza diversa, rendendolo il miglior candidato a disposizione per rappresentare quella forma umana alla base di una divergenza evolutiva fondamentale che, partendo da Homo heidelbergensis, avrebbe dato origine a sapiens in Africa, neanderthalensis in Europa e denisova in Asia. Mi occupo dell’uomo di Ceprano dal 1999. Quando sono arrivato gli venivano attribuiti 800-900 mila anni; altri lo definivano tardo Homo erectus.

Il reperto andava quindi riconsiderato. Nel 2001 sono emersi dati che hanno smentito la datazione proposta dai geologi, abbassandola a 400 mila anni. Pertanto, nel 2010 Argil esce dallo scenario del primo popolamento dell’Europa, ma entra in una nuova dimensione che riguarda la variabilità delle popolazioni umane europee successive. Il 13 marzo, presso il museo dedicatogli a Pofi, si celebrerà il rinvenimento avvenuto nel 1994, dopo decenni in cui in Italia non c’erano state sorprese. Saccopastore e Grotta Guattari risalivano agli anni ’30. Poi solo frammenti, come il parietale di Casal de’ Pazzi. Infine, trent’anni fa, Ceprano e Altamura: nessuno di questi due neanderthal ha tuttavia ottenuto quanto meritato.

Manzi e, a destra, Echaurren

E Grotta Guattari?
Fu scoperta nel 1939, quindi dimenticata. Nel 1989, nel corso del convegno organizzato per il cinquantenario, smontammo la teoria di Blanc secondo il quale nella grotta erano praticati riti di cannibalismo. Di nuovo Grotta Guattari cadde nel dimenticatoio, finché l’amministrazione di San Felice Circeo non decise di darle una migliore sistemazione, anche per favorire il turismo. Si propose, contestualmente, di riprendere gli scavi. Questi furono affidati a Mario Rolfo, che ha realizzato indagini straordinarie.
Nel cosiddetto Antro del Laghetto, nel 2021, sarebbero stati individuati una trentina di resti neanderthaliani. Tuttavia, che io non ne sappia ancora molto è grave. Due anni fa la Soprintendenza ha istituito con l’Università Sapienza una commissione per lavorare su quei resti, che però ho visto una volta soltanto.

Nella postilla esprime timori sull’impatto sociale dell’intelligenza artificiale. Cos’è, invece, l’intelligenza umana?
Il cranio neanderthaliano era grande quanto il nostro, ma oblungo. Un carattere marca la comparsa di Homo sapiens: la testa rotonda. Questa rotondità in termini di exaptation – la capacità degli organismi di riadattare in modo inedito strutture già a disposizione per altre funzioni – ha comportato l’espansione della aree parietali: i lobi frontali del cervello si sono spinti in avanti, l’occipitale ha ruotato verso il basso, le aree parietali – appunto – si sono aperte a ventaglio. Ciò si verificò intorno a 200 mila anni fa in Africa orientale e, da ciò, nel tempo scaturirono a cascata tutte le capacità cognitive che riconosciamo ai sapiens, dall’arte rupestre al linguaggio articolato.

Studiare il passato può salvare la Terra dall’antropocene?
Ragionare su come si siano estinti i neanderthal, oppure quegli abitanti dell’isola di Pasqua capaci di abbattere tutti gli alberi intorno a loro, ci fa almeno capire qual è il nostro posto nella natura. La paleoantropologia sfuma i confini eretti tra storia e preistoria, ormai una big history raccontata con dettagli incredibili.

È notevole la possibilità di osservare l’ibridazione interspecifica tra neanderthal e sapiens. Venti anni fa mai l’avremmo immaginato. Ci aveva però provato il paleontologo finlandese Björn Kurtén nel romanzo del 1978 “La danza della tigre”. Nella prefazione, Stephen J. Gould scrisse che a volte è impossibile arrivare a certe conclusioni: attraverso la forma della letteratura, tuttavia, possiamo intravedere intuizioni che la scienza del domani potrà magari dimostrare.

***

Pablo Echaurren e il neanderthal duchampiano

Racconta Pablo Echaurren che, a un certo punto, non avrebbe più fatto nulla. Si era svuotato, stancato. Per l’intera esistenza aveva prodotto arte non dogmatica dentro i movimenti, smettendo gli abiti dell’artista a favore della collettività, tuttavia ignaro di soffrire le strette maglie dell’ideologia. «I neanderthal mi hanno donato ossigeno», ricorda. «Mi sentivo brutalizzato perfino dalla percezione degli amici». A rimetterlo in piedi – letteralmente – furono infine l’energia di Giuliano Sacco e, con lui, le passeggiate di ricognizione preistorica a Maccarese. Quando queste furono interrotte dalla pandemia, con reperti rinvenuti sul campo Echaurren ha iniziato a creare scatole che sembrano vetrine da wunderkammer in miniatura, dove non esistono sapiens, né padroni.

È attivo dal ’69. Ha collaborato con Lotta Continua e animato il ’77, disegnato le copertine di Porci con le Ali e La violenza illustrata, inventato fumetti d’avanguardia e girato il film The Holy Family sui Ramones. Il Max Planck Institudte di Lipsia, quello del Nobel al sequenziatore di genomi neanderthaliani Svante Pääbo, sta lavorando a un libro su di lui, che uscirà entro il 2024. È tanto, per chi voleva solo suonare il basso.

Pablo, quale genere suonerebbero i neanderthal?
Il punk, indubbiamente, come Majakovskij e i futuristi. Tutti possono suonare; la poesia appartiene a chiunque; esiste un’arte senza artisti. Da bambino non socializzavo e non seguivo il calcio. Compravo libri sulle bancarelle: ritagliavo e raccoglievo, ricopiavo da essi o dal vero, guardando per terra. Scrissi pure un libretto sul “dismorfismo” sessuale dei coleotteri, mettendoci una s in più. Collezionavo ossidiane provenienti da Lipari e preparavo scatole entomologiche, che sono alla base di quanto avrei riprodotto da adulto. C’era già l’idea del catalogare e del mettere in fila cose simili. Allora l’uomo preistorico era il nemico, il pericolo.

Pablo Echaurren, «The Neanderhymne», 2021

Qualcosa di affine agli indiani?
Nel ’77 usavo il mostro come rappresentazione del nostro essere diversi, dal borghese e dal conformismo della sinistra extraparlamentare all’interno della quale agivamo. Non volevamo stare fuori di lì: il nostro era un linguaggio rivolto a noi stessi, non al mondo dell’arte.
Con il tempo ho capito che la criminalizzazione e la bullizzazione imposta al neanderthal si avvicinava alla ghettizzazione subita dagli indiani, anticipandola all’archetipo di un’umanità ancestrale non riconosciuta come tale. Tra l’altro, parlare di indiani metropolitani risulterebbe oggi un’appropriazione culturale.

E non ti stai forse appropriando del neanderthal?
Sì, ma ho un alibi: ho dismesso anche la mia famiglia e già a sedici anni, quando scelsi come padre Gianfranco Baruchello, che avrebbe determinato il mio destino. Per me l’arte era materia, astrazione, sgocciolamenti. Nel momento in cui vidi un’opera di Baruchello, mi dissi all’istante che sembrava una scatola di coleotteri: immagini piccole e fulgide, con una calligrafia minuta tutta da leggere. Finalmente una figura pulita, che forse mi ricongiungeva con l’infanzia.
Decisi che sarei disceso dal mio albero genealogico per risalire su un altro che all’apparenza non mi apparteneva. In maniera provocatoria rifiutai il sapiens e scelsi la vita, andando incontro al neandertal. E non c’è alcuno statuto del politicamente corretto che gli permetta di rivalersi sulla mia appropriazione.

Ricordi qualche particolare epifania?
Nel 1908, a La Chapelle-aux-Saints, rinvennero uno scheletro di neanderthal; l’anno seguente comparve una sua rappresentazione sulla rivista L’Illustration, di cui conservo l’originale: è uno scimmione curvo e peloso; la firma è di Kupka, un artista ceco d’avanguardia.
Tenendo a mente quell’immagine, capii che potevo passare dall’indiano al neanderthal senza impantanarmi nel mito rousseauiano del buon selvaggio, ma incamminandomi su una critica radicale alla specie sapiens, manifestatasi con caratteristiche sgradevoli che hanno portato alla guerra e alla devastazione ambientale. I neanderthal sono stati vittime di razzismo: i sapiens erano l’uomo bianco, loro i neri. Poi si è scoperto come in realtà fossero gli unici indigeni europei, ma non sono ancora riusciti a manipolarli in chiave suprematista.

A volte gli artisti pungolano l’accademia con domande che anticipano intuitivamente le scoperte scientifiche.
Non sono uno studioso ma, da appassionato, ho fatto dei conti. Circa 400 mila anni fa, in Europa, compare il neanderthal; 200 mila anni fa, in Africa, il sapiens: due ramificazioni di Homo heidelbergensis. Sapiens prima va in Oriente, infine 50 mila anni fa giunge in Europa, dove dopo diecimila anni di convivenza neanderthal si estingue.

La pittura delle caverne, dalla quale si fa discendere la percezione simbolica e pertanto la capacità di sviluppare un pensiero artistico, è attestata tra i sapiens solo 35 mila anni fa. Cosa è successo nei precedenti diecimila anni di convivenza? Prima, tutta questa bellezza non c’era. Avrei poi un’altra domanda: se il neandertal fosse vissuto altri 5 mila anni, avrebbe raggiunto lo stesso livello del sapiens?

Sapiens, proprio in quei millenni, era in piena rivoluzione cognitiva: il linguaggio, la sepoltura, la navigazione…

Leggo tanta divulgazione. E, nel saggio Il mondo prima di noi, lo specialista del radiocarbonio Tom Higham sostiene che la presunta superiorità culturale degli umani moderni potrebbe essersi concretizzata solo verso la fine di un periodo prolungato di sovrapposizione con i neandertal. E se il sapiens fosse picassiano e il neanderthal più duchampiano? Si tratta in fondo di un’altra specie: non possiamo immaginare come ragionasse. Forse era più corporale, più legato alla performance, all’estemporaneo e all’effimero: le foglie, la sabbia, penne, conchiglie, cose che non fossero necessariamente attimi da fermare.

Nella grotta di Bruniquel, in Francia, ci sono due grandi circoli di stalagmiti spezzate a 300 metri dall’ingresso; risalgono a 170 mila anni fa. E se il neanderthal avesse semplicemente intrattenuto un rapporto differente con la rappresentazione simbolica? Del resto la prima sua manifestazione, secondo alcuni, risalirebbe alla pietra di Makapansgat, in Sudafrica: un ready-made, un ciottolo portato in una grotta tre milioni di anni fa da australopitechi che dovevano aver riconosciuto in esso un volto stilizzato. Se così fosse, l’uccisione dell’arte di Duchamp coinciderebbe con la sua nascita.

Come è iniziato il rapporto con Giuliano?
Aveva realizzato per me uno shopper in occasione della mostra Chromo Sapiens, a Palazzo Cipolla. Ci eravamo poi persi, per dieci anni. Io ero depresso, quando casualmente mi ha ricontattato e aiutato, offrendomi ricognizioni preistoriche a Maccarese. Lì Giuliano, che viene dalla street art e ha un padre entomologo, scheggiava selce già da piccolo. Così mi ha insegnato.

Quei campi rivestono un significato notevole nella storia della paleoantropologia. Il primo a intuire come alcune selci potessero essere state scheggiate dagli uomini è stato un poligrafo delle dogane francesi, Boucher de Perthes, che in una lettera scrive di aver trovato a Palo, sull’Aurelia presso Maccarese, tre pietre di fulmine: allora le chiamavano così, ma a lui – scrive – sembravano per l’appunto manufatti. Ci penso sempre, quando rifletto sulla “neandertal-terapia” che sto vivendo.

Funziona?
Quando la notte resto sveglio, so che devo inseguire pensieri positivi e ci provo. Mi figuro allora un ruscello con un neanderthal al mio fianco, che scheggia in silenzio. Mi attrae e mi repelle – perché non so se davvero posso stabilire un rapporto con lui – ma prendo sonno.

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