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I noccioleti «alternativi» della Tuscia

Reportage In un settore dominato dalla Nutella, nel viterbese nascono marchi bio e si prova a creare una filiera. Viaggio tra i piccoli coltivatori non allineati

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 24 maggio 2018

Decenni fa, in un paesino del Piemonte, alla fine di ogni estate un’alunna delle scuole elementari raccoglieva sul pendio dietro casa le nocciole cadute dai cespugliosi alberi di Corylus Avellana, lasciati a se stessi. Le vendite di questa piccolissima economia della nocciola finivano nell’orgoglioso acquisto di libri: fantascienza e letteratura per l’infanzia. Una buona parte del raccolto era oggetto di consumo domestico: previa tostatura, in dolci, creme, salse.

La nocciola richiama il mondo caldo dell’infanzia. Ma quanta poesia rimane oggi nella corilicoltura, un settore in espansione anche in Italia, secondo produttore mondiale con una media di 110.000 tonnellate annue su 70.000 ettari concentrati in Lazio, Campania e Piemonte?

Qualcosa rimane. Per esempio sulle pendici orientali del Monte Cimino, nel viterbese, al limite fra zone coltivate, castagneti e macchia, Roberta e Stefano (che è anche musicista in un gruppo blues) producono dal 1986 miele, olio, castagne, kiwi, mele ma anche nocciole: «Il noccioleto lo teniamo come un bosco naturale dove sono presenti altre piante. Non facciamo alcun trattamento. E raccogliamo tutto a mano come una volta. Di macchinari abbiamo solo il mulino a pietra per macinare le nocciole». L’azienda agricola Monti Cimini si occupa di tutto, dal campo al consumatore, filiera cortissima. Le nocciole in guscio e sgusciate vengono vendute soprattutto nei mercatini dei produttori. Limitatissima la produzione della morbida e paradisiaca pasta di nocciole tostate, distribuita talvolta con un volantino-ricettario. Disponendo di un ettaro di noccioleto e ricorrendo a questo sistema di vendita diretta, si ricava un po’ di reddito? «Dipende molto dalle annate, a volte abbiamo discreti raccolti altre volte meno… anche la resa media è indefinibile: raccogliendo a mano magari si arriva dopo gli scoiattoli, oppure cresce troppa erba o sopraggiungono le piogge». Che cosa suggerireste alle pubbliche amministrazioni per dare una mano al settore? «Qualche sostegno finanziario alle piccole unità agricole che tutelano il territorio coltivando in modo naturale terreni e aree che altrimenti sarebbero abbandonati. E poi favorire il più possibile i mercati contadini per la vendita diretta di prodotti locali».

Ma fra i produttori di Tonda gentile romana e Nocchione nel viterbese (pochissimi i biologici, benché si strappino prezzi migliori), quasi nessuno accede direttamente al consumatore. Si arriva sul mercato tramite le Organizzazioni di produttori che vendono agli sgusciatori i quali a loro volta si rivolgono all’industria di trasformazione o alle reti di commercializzazione. E quasi nessuno trasforma. Eppure «l’agricoltura naturale e la trasformazione locale del prodotto-nocciola da parte di piccole imprese e botteghe artigiane è fondamentale per diffondere ricchezza nei territori» dice Famiano Crucianelli, presidente del Biodistretto della via Amerina e delle Forre, un’area che interessa tredici comuni della Bassa Tuscia e dei Monti Cimini. Il Biodistretto si occupa da tempo del nocciolo come ricchezza. E come problema, quando diventa un’estesa monocoltura – l’opposto del bosco di Roberta.

Solo da pochi anni il viterbese sta conoscendo un piccolo sviluppo della filiera, a diversi stadi di trasformazione, fino alla regina dei prodotti a base di nocciole: la crema spalmabile. Insomma la Tuscia si sta inserendo in un settore certo dominato da una nota multinazionale, ma ormai ricco di marchi piccoli e medi, spesso con ingredienti bio e/o equi, con o senza cacao, zucchero e altri ingredienti. E di certo senza olio di palma.

Oltre alla pasta di nocciole venduta all’ingrosso – come la granella e la farina -, da Bionocciola a Carbognano, e ai marchi Deanocciola di Gallese e Nellina di Caprarola, c’è un corilicoltore biologico che prova a trasformare direttamente. Luca di Piero ha un’azienda biologica da 20 anni a Civita Castellana, con 25 ettari di noccioleti. Di recente ha avviato un impianto di trasformazione che lavora il 10-15% delle nocciole; il resto lo vende tuttora agli sgusciatori.

Camminando all’ombra dei bei noccioli impiantati nel 2001, Luca di Piero spiega: «Se riesci a trasformare, la clientela è tua, direttamente. E siccome bisogna copiare da chi fa bene, sono andato a imparare in Piemonte. Là ormai più che vendere il prodotto grezzo ad aziende multinazionali, tanti piccoli e medi produttori, magari riuniti in cooperative, trasformano e incamerano valore aggiunto. Vanno sul mercato, pubblicizzano la nocciola piemontese, che adesso non per niente cruda sgusciata si vende all’industria a 10 euro al kg. La nostra, qui nel viterbese, è altrettanto buona ma va intorno a 6 euro al kg; una bella differenza!».

Fuori dal laboratorio, la bacheca espositiva schiera barattoli di crema di nocciole e cacao, crema fondente, o con semi di canapa di Canepina o all’aroma di tartufo, tutto con il marchio Nòcciola, sottotitolo «Dalla terra dei vulcani una crema senza compromessi». Spiega il produttore: «Se arrivassi a trasformare il 50% andrei quasi a gonfie vele! Per ora vendiamo la pasta e altri trasformati a gelaterie e ristoranti ma anche, confezionata in vasetti, a negozi specializzati in prodotti di alta qualità, agriturismi, alberghi. Abbiamo puntato sull’alta gamma. Le nocciole sono il 60-70% degli ingredienti, lo zucchero è di canna, la vaniglia biologica…» Dalle nocciole si ricavano anche olio («Come condimento, poche gocce; o come cosmetico») e farina da aggiungere a dolci, pane o pizza.
Il prodotto di Luca è stato considerato il migliore dell’anno in una famosa guida di settore. «Non serve espandere la coltura delle nocciole, non servono più ettari, serve inglobare valore aggiunto. Un produttore che trasforma in nocciola sgusciata, è già qualcosa. A Corchiano si sono consorziati per gestite i macchinari e così possono vendere a 8 euro. Già quello conviene».

Mentre si guarda al futuro e qualche associazione locale promuove il turismo ambiental-gastronomico, il passato prossimo e il presente registrano ritardi burocratici: «I contributi del biologico sono indietro di tre anni; eppure sarebbero ossigeno. Il Programma di sviluppo rurale registra infiniti ritardi; per queste macchine trasformatrici finora ho messo tutto io…»

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