Il Moretto, ritratto realizzato da Alessandro Longhi nel Settecento, campeggia sulla copertina del nuovo libro di Marina Caffiero: Gli schiavi del papa. Conversioni e libertà dei musulmani a Roma in età moderna (Morcelliana, pp. 326, euro 30). Non sappiamo chi fosse questo ragazzo sul quale il nero della carnagione contrasta l’abito bianco elegantissimo, di foggia europea, dai bottoni di perle come gli orecchini, e al collo una croce aurea incastonata di pietre preziose.
Esotismo e simboli di appartenenza alla cultura che si vuole «nostra» (occidentale, cristiana, bianca) si intrecciano nel ritratto e nel libro, che delinea magistralmente un quadro della schiavitù nella Roma papalina di età moderna, forte del ritrovamento di un Libro dei Turchi dell’Archivio della Pia Casa dei catecumeni e dei neofiti (la cui edizione critica, a cura di Micol Ferrara, chiude la pubblicazione) nel quale sono rapidamente tracciate le storie di un centinaio di schiavi musulmani, uomini e donne, di diversa provenienza.

È UN CAMPIONE di vicende ricco e interessante, che Caffiero mette in relazione con altre fonti primarie e con la bibliografia sugli argomenti, e non sono pochi, che tocca la schiavitù ma anche i rapporti interreligiosi, le conversioni vere o false, con molte vie di mezzo, la rappresentazione dell’«altro». Lo fa attraverso trenta brevi capitoli che spaziano dalle storie individuali a quelle collettive: c’è la vicenda di Bruca, «turca di Tripoli», battezzata nel 1778 in seguito a una visione miracolosa che l’aveva condotta alla conversione dopo aver resistito a lungo nella sua fede musulmana. Durante l’adolescenza, mentre era in viaggio sul mare con la sua famiglia, era stata assalita da pirati maltesi; alcuni familiari erano riusciti a fuggire o erano stati riscattati, ma a lei, alla sorella e a tre fratellini piccoli non era toccata questa fortuna, ed erano finiti schiavi, lei presto incinta del suo padrone. È una vicenda che aveva avuto un certo clamore, ma per il miracolo, non per la schiavitù, che era all’epoca fenomeno comune.

Petrarca aveva definiti gli schiavi i «nemici nelle nostre case» ed è un atteggiamento che si ripercuote anche in molte vicende che incontriamo nel libro, nonché nelle premesse poste da Marina Caffiero: «Il tema dello straniero musulmano occupa un posto di rilievo nella storiografia recente che ribadisce la loro presenza in Europa, a lungo ignorata. Gli studi hanno rilevato come i musulmani fossero sì stranieri ma anch’essi famigliari»; non a caso, proprio nelle pagine iniziali, l’autrice mette in relazione il tema trattato in questo libro con quello, a lei familiare, degli ebrei in rapporto al corpus christianorum all’interno del quale si trovano a vivere, anch’essi non un blocco estraneo, sebbene ben più radicati dei musulmani, ma al contempo avvertiti come maggiormente infidi e pericolosi.

È LECITO CHIEDERSI quanto ci sia di profondo, diciamo pure di psichico, in una società che asserve, che domina e che pure tende a considerare le sue vittime come nemici interni. Un discorso che naturalmente non si ferma alla sola Europa, dal momento che soprattutto nel mondo turco la schiavitù dei cristiani era altrettanto diffusa e, come Caffiero sottolinea, entrambe le parti erano spinte a evitare atteggiamenti troppo crudeli proprio sapendo che avrebbero avuto un contrappasso dall’altra parte. Gli schiavi del papa include un apparato iconografico molto ricco e tutt’altro che puramente esornativo: non ci sono solo le immagini, come quella del Moretto citato, pure utilissime, ma anche cartine geografiche delle tratte e mappe dei luoghi di Roma rilevanti per il suo discorso. Caffiero non evita neppure i riferimenti alla contemporaneità, storiografica come sociale: non è un caso se una riflessione sul meticciato sia partita da paesi che hanno un forte passato coloniale, mentre siano ancora, almeno in parte, terreno da esplorare qui da noi. L’Italia è bianca?, titola significativamente il capitolo conclusivo. Allo stesso tempo rivendica la necessità di riflettere su tali vicende senza pudori e senza pregiudizi, senza farsi paralizzare dalle derive della cancel culture.