Picchetto d’onore, bandiera ammainata, lettere ufficiali di dimissioni lette nelle aule parlamentari e salutate da applausi scroscianti, alcuni sinceri, altri ipocriti. E poi dichiarazioni a spiovere, riconoscimenti che rasentano l’iperbole. Repertorio, insomma. Giorgio Napolitano non è più il presidente della Repubblica. Lo sostituisce, momentaneamente, il presidente del Senato Grasso. Ieri anche lui ha salutato l’aula, passando la mano ai suoi quattro vice. Aveva lo sguardo di chi fortissimamente spera che si tratti di un addio e non di un arrivederci. Il secondo cittadino sogna di diventare presto il primo, ma le sue quotazioni sono basse: è un magistrato, e questo per il solo alleato del Pd che conti, Silvio Berlusconi, è proibitivo.

Come previsto, gli elettori del nuovo capo dello Stato sono stati convocati a Montecitorio per giovedì 29 gennaio. Renzi spera di tagliare il traguardo di volata: «Ragionevolmente entro fine mese avremo il nuovo presidente». Ma per carità, non si giochi con i nomi: «Oggi sarebbe ridicolo. Serve un grande arbitro che aiuti il Paese a crescere». Un presidente «di tutti» designato con il consenso più vasto possibile, recita il copione e don Matteo ripete da settimane la preghierina. Non va preso sul serio. Quel che è successo nelle ultime 24 ore al Senato, le sberle affibbiate senza remora tanto alle opposizioni quanto al rispetto delle regole istituzionali, il disprezzo ostentato nei confronti di chiunque mediti di resistergli, sono l’opposto esatto del comportamento proprio di chi cerca vasti consensi. La realtà è che Renzi ha già deciso che il prossimo capo dello Stato deve essere scelto da due sole persone: lui stesso e il socio del Nazareno.

E’ un gioco tanto sfacciato che Pierluigi Bersani proprio non può fare a meno di scoprirlo, e di fatto denunciarlo, pubblicamente: «Ma se il presidente vogliamo davvero farlo con tutti, allora perché aspettare la quarta votazione? Facciamolo alla prima, che sono davvero tutti-tutti». Parole al vento. Un presidente eletto con il concorso delle opposizioni vere e non solo di Fi sarebbe giocoforza un presidente forte, tanto da poter proseguire sulla scia di re Giorgio. L’opposto esatto di quello che vuole Matteo Renzi. Molto meglio un presidente-garante, più precisamente un presidente incaricato di girare il mondo pubblicizzando le meraviglie del belpaese e soprattutto del suo bellissimo governo. Dunque un presidente eletto solo dal Nazareno e che solo al Nazareno debba rispondere.
Dietro i toni ruggenti, infatti, Berlusconi dice le stesse identiche cose del premier: «Speriamo in un presidente garante di tutti e non di una parte. Non il seguito di tre presidenti di sinistra che hanno portato il Paese in questa situazione non democratica. Se ci sarà indicato un nome che rappresenti tutti saremo lieti di sostenerlo col voto dei nostri 150 grandi elettori». Berlusconi non vuole un presidente targato Pd, il che a Renzi andrebbe benissimo. Per la sua idea di presidente-testimonial, un candidato meno è politico di professione e meglio è.

Se poi il colpaccio non dovesse riuscire, una volta appurato che le resistenze della minoranza Pd rendono inevitabile la nomina di un esponente di spicco di quel partito, per il furbetto di palazzo Chigi non sarà difficile convincere Berlusconi ad accettare un nome non ostile, primo fra tutti Walter Veltroni, agitando lo spettro di Romano Prodi. In fondo, quel che Berlusconi vuole è solo che il prossimo inquilino del Colle dia il via libera a quel «recupero dell’agibilità politica» tanto più impellente dopo che ieri la Cassazione ha confermato il divieto di espatrio ai suoi danni.

La strategia della coppia è dunque chiara. Tre votazioni a vuoto, poi, alla quarta, convergenza su un nome che garantisca di garantire solo loro. Bisogna ancora trovarlo e non è facile. Bisogna domare le ribellioni interne e non è facile nemmeno questo, ma niente paura: le carte di riserva sono già pronte. Da Veltroni, il preferitissimo, a Piero Fassino a Sergio Mattarella e altri potrebbero spuntare fuori se del caso.

I possibili ostacoli sono fondamentalmente due. Il primo è una manovra per imporre Romano Prodi, facendolo emergere proprio nelle prime tre votazioni. Se alla terza il professore vantasse 350-400 voti, per Renzi diventerebbe imbarazzante silurarlo. Il secondo è il voto sulla legge elettorale. Se le minoranze Pd e Fi, coalizzate con le opposizioni, riuscissero a bocciare il passaggio sui capilista bloccati il segnale sarebbe devastante. Al momento di eleggere il presidente, le file dei franchi tiratori si gonfierebbero come palloni aerostatici. Per questo ieri Berlusconi ha riunito i suoi senatori: per verificare quanto vasto e determinato sia il dissenso sulla legge elettorale, certo. Però con lo sguardo rivolto al Colle.