Una riflessione su quale contributo possa offrire una scienza sociale storica e globale, aperta alle voci dei Sud del mondo, all’analisi del presente e alla costruzione di un futuro più ugualitario. Questo il tema affrontato da Stéphane Dufoix, sociologo dell’università parigina di Nanterre e Sari Hanafi, professore di sociologia dell’American University di Beirut, e presidente dell’International Sociological Association; ambedue membri del network Toward a Non-Hegemonic World Sociology.

Come cambiano le forme del potere mondiale a tutte le latitudini?
Dopo il 1989, parole come Nord e Sud globale sono servite a caratterizzare sia l’opposizione tra Paesi ricchi e poveri sia la battaglia delle idee che diversi studiosi del Sud hanno condotto contro l’egemonia culturale del Nord. L’ascesa di Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica ha reso visibile queste tensioni perché le economie emergenti costituiscono delle realtà che non possono essere capite solo alla luce delle loro relazioni con il Nord. Bisogna comprendere le relazioni tra Sud e Sud; confrontarsi con nuove potenze regionali. Ad esempio, la guerra in Siria non può essere analizzata senza tenere conto dell’espansionismo dell’Iran, della Russia, dei regni Sauditi, oltre che di Francia e Usa.

Cosa accomuna, e cosa differenzia, le «rivoluzioni» in Cile, Libano e Hong Kong?
Sono movimenti formidabili che combattono contro il neoliberismo e a favore della democrazia. Gli studenti ne sono la spina dorsale perché i giovani non vedono futuro in questo sistema di prevaricazione. La gioventù di Hong Kong è contro le violazioni dei diritti umani in Cina, e non a caso evoca il caso della minoranza uigura – musulmana – nella regione del Xinjiang. Ma esistono anche differenze sostanziali. In Cile e a Hong Kong la repressione è più violenta che in Libano, dove, dietro la rivendicazione da parte dei manifestanti di tassare i capitali e combattere la corruzione, c’è la necessità di un ricambio, per via del sistema settario che, travestito da democrazia consociativa, ha mantenuto al potere le medesime persone e famiglie per decenni. Inoltre, le tasse sul reddito sono incrementali mentre sui capitali non lo sono. Chi possiede 1000 dollari in banca è tassato come chi ne ha un milione e ciò fa del Libano il paradiso fiscale dei capitalisti corrotti. L’economista francese Piketty ha ragione a proposito della necessità di tassare i capitali e le eredità per redistribuire la ricchezza. Disuguaglianze e autoritarismo vanno insieme: le vittorie dei «mini-Trump» in tutto il mondo hanno ridato spazio a movimenti illiberali e dittatoriali.

Il colonialismo sopravvive all’egemonia dell’Occidente?
Sì, in diverse forme. La più classica ha luogo in Israele. Dopo l’espulsione di 900mila palestinesi nel 1948, Israele continua tutti i giorni con il suo progetto di insediamento nei territori. La seconda è neo-coloniale e si concretizza con il sostegno economico e militare ai regimi dittatoriali da parte dei vecchie e nuove potenze: Usa, Francia, Gran Bretagna, Arabia Saudita e Iran. Tuttavia sarebbe un errore leggere gli attuali regimi autoritari nel Sud del mondo solo attraverso il loro rapporto con le potenze imperiali senza considerare le dinamiche interne a questi regimi. Per questa ragione, il sociologo peruviano Anibal Quijano era stato lungimirante nell’insistere sulla doppia dimensione, interna ed esterna, dell’autoritarismo nei Paesi del Sud. Il suo concetto di colonialità del potere evidenzia sia le forme di dominazione coloniale e neocoloniale, sia quelle delle élite nazionali all’interno degli Stati.

Quale lotta è prioritaria: quella contro l’inquinamento o quella contro la disoccupazione?
Sono inseparabili. Ecologia ed economia politica dipendono dal sistema produttivo che vogliamo. Il costo del cambiamento climatico è alto, visto che la massiccia riduzione delle emissioni renderà esigui i margini di profitto di molte attività produttive. D’altro canto è necessario pensare all’effetto della digitalizzazione del lavoro e dell’automazione. Per quanto ambedue possano intervenire sul tasso di disoccupazione, si nutrono dell’assenza di protezione sociale, producendo effetti deleteri sulle future generazioni. Allo stesso tempo, però, affrontare il problema del rapporto tra ecologia ed economia politica è impossibile senza una nuova coscienza diffusa tra le persone a proposito del rapporto del singolo con il pianeta e dunque con l’umanità intera. Come sostenuto dal filosofo della scienza Bruno Latour, sebbene la questione dell’ambiente non sia ignorata, in pochi avvertono il senso di appartenenza al territorio fisico in cui vivono. Le comunità indigene sono molto più consapevoli di chi vive in società più o meno industrializzate, dove, il più delle volte, andrebbe ripensato il rapporto con la natura e i propri simili al di là dell’idea moderna del dominio. Emmanuel Levinas scrisse, a tal proposito, che la condizione di possibilità per il pensiero umano è il reciproco riconoscimento: «Prima del cogito, esiste il salutarsi». Il modo in cui ci confrontiamo con le migrazioni globali è oggi il banco di prova dell’umanità.

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Stéphane Dufoix e Sari Hanafi hanno pubblicato su Libération del 6 settembre 2019 un articolo dal titolo “Aprire la sociologia al mondo e all’universalità” che riproponiamo di seguito.  

Nel 1995, il rapporto della Commissione Gulbenkian diretta da Immanuel Wallerstein – scomparso il 31 agosto scorso – invitava ad «aprire le scienze sociali» ripensando le condizioni dell’interdisciplinarità e la classica distinzione tra le scienze sociali e le scienze naturali. Tuttavia, l’appello ad accettare il carattere situato – occidentale – dell’eredità sociologica e a superare l’opposizione semplicistica tra particolare e universale risulta ancora largamente illusoria. Da allora, altri presidenti dell’International Sociological Association (ISA), come Michel Wieviorka e Michael Burawoy, hanno sostenuto la necessità di un pensiero sociologico più globale e di un maggiore appoggio alle differenti sociologie nazionali. Sessant’anni dopo il congresso costitutivo dell’ISA tenutosi Oslo nel settembre 1949, sembra ancora possibile e auspicabile muoversi in direzione dell’apertura della sociologia, in particolare lungo tre linee specifiche: in primo luogo è urgente che un gran numero di sociologi dei paesi occidentali aprano gli occhi – e non solamente loro – sulla dimensione mondiale di un sapere e di una disciplina che, già al volgere del XX secolo, non era affatto limitata agli Stati Uniti d’America, al Regno Unito, alla Francia e alla Germania. A partire dall’appropriazione del lavoro di Comte e di Spencer, delle lezioni, delle riviste, in tutto il mondo gli autori riaffermavano il pensiero sociologico che era già esistente in Colombia, Venezuela, Argentina, Russia, Giappone o Cina. Ancora oggi, la nostra conoscenza di questa storia – e di queste storie – è molto lacunosa, così come è lacunosa il nostro modo di considerare, e di insegnare, il passato e il presente della disciplina in America latina, in Asia, in Europa centrale, meridionale e orientale, nel mondo arabo, nell’Africa subsahariana e in Oceania. In secondo luogo, la maniera in cui abbiamo insegnato la disciplina ha limitato generalmente la storia della sociologia alla storia delle teorie sociologiche. Le relazioni storiche costitutive tra lo sviluppo delle scienze sociali e l’espansione del colonialismo europeo e nordamericano ha imposto una divisione internazionale del lavoro epistemologico secondo la quale il lavoro teorico sarebbe prerogativa del centro – e dunque dell’Occidente; l’elenco degli autori considerati «classici» e che pertanto devono essere letti e conosciuti dagli studenti di sociologia è pressoché invariabilmente identica in tutti i Paesi e non include altri che uomini occidentali. L’apertura del canone dovrebbe riguardare sociologhe e sociologi provenienti da Paesi non-occidentali che hanno prodotto lavori teorici, epistemologici ed empirico di assoluto rilievo (Alberto Guerreiro Ramos, Ari Sitas, Orlando Fals Borda, Irawati Karve, Akinsola Akiwowo, Fatima Mernissi, Fei Xiaotong, Anouar Abdel-Malek, Ali el-Kenz ou Tsurumi Kazuko – per citarne alcuni). Così facendo, sarebbe possibile inglobare autori e autrici che, nei paesi occidentali, sono stati esclusi dal canone della disciplina per ragioni di razza e di genere, come Harriet Martineau, W.E.B. DuBois, Marianne Weber, o Jane Addams). Questa apertura del canone non si prefigge l’obiettivo di sostituire un canone con un contro-canone né di rendere infinita la lista di autori e autrici che gli studenti sarebbero obbligati a conoscere: essa mira innanzitutto a offrire un’immagine più adeguata, dal punto di vista storico, della nascita della sociologia, in modo tale da reinserire la dinamica delle relazioni di potere (geografico, razziale, di genere) nel cuore dell’apprendimento delle costruzione e dell’evoluzione della disciplina. In terzo luogo, interrogare la storia della sociologia e la costruzione del canone della disciplina mira infine a dischiudere il senso dell’universale. La ricerca delle leggi generali dell’evoluzione sociale, la volontà di ricalcare la sociologia sullo stampo delle scienze naturali, così come l’eurocentrismo dei teorici classici, hanno condotto spesso a confondere due forme di universalismo: l’elaborazione, di matrice positivista, di concetti ampiamente trans-storici e trans-spaziali, nonché l‘idea di una scienza sociale che per la quale la produzione di saperi sarebbe disconnessa dalle disposizioni culturali e sociali proprie degli stessi produttori di saperi. Di conseguenza, il sapere sociologico risulterebbe incapace di comprendere se stesso in termini sociologici! Pertanto, rinunciare totalmente a questa forma di universalismo per abbracciare l’idea secondo la quale la produzione di conoscenza è sempre situata non conduce affatto al relativismo culturale assoluto, bensì a una trasformazione dello statuto dell’universalità. L’universale non è qualcosa che è sempre già dato: ma è sempre un prodotto storico di lotte per la definizione di cos’è il sapere sociologico stesso. Pertanto, può essere pensato e concettualizzato – meglio in termini di universalità che di universale – come tensione tra generale e particolare, tra globale e locale. L’universalità va sempre costruita, attraverso il dibattito, la lotta, il dialogo, per oggi e per domani.

(Traduzione di Gennaro Ascione)