Esiste una «scuola calabrese» nell’ambito degli studi cinematografici contemporanei, afferente all’Università della Calabria, che rappresenta un presidio formidabile per la teoria del cinema (e non solo in Italia), cui presupposto è la filosofia in quanto strumento di attualizzazione dell’immagine, della dialettica tra forze e forme alla base dell’apparire cinematografico. Non tanto o non solo la storia del cinema, quanto una geografia cinematografica, un’estensione del concetto, dell’iconografia, fertile, fiorente nel presente, che occupa spazio in relazione alle possibilità d’esserci del presente: sono plaghe, campi ermeneutici pullulanti di tuberi, rizomi; narrazioni e non metanarrazioni. In quest’ambito rientra il volume di Luca Bandirali Medium Loci. Spazio ambiente e paesaggio nella narrazione audiovisiva, (Pellegrini edizioni) che contribuisce a connotare la «territorialità» di questi studi.

“Professione reporter”

SI TRATTA di uno splendido libro, scritto molto bene dal punto di vista lemmatico e sintattico, che usufruisce proprio di questo dispositivo formale, scritturale per incalzare e chiarire di volta in volta il discorso. Che è un discorso sulle possibilità contemplative offerte dal cinema prima e poi dalle serie televisive, partendo dal concetto di paesaggio e distinguendolo da quello di ambiente. Se l’ambiente è il contesto dello svolgimento narrativo in cui si espleta l’azione dei personaggi in funzione della congruità del racconto, il paesaggio è lo spazio in sé, esistente al di là dell’azione e della narrazione, che suscita la contemplazione fino a divenire fulcro del film. Al centro è il medium, il quadro, l’atto di trascegliere, confinare porzioni di mondo (anche ideale) in un’immagine (scritta, composta), un’estetica.
Da qui il libro delinea i casi in cui i concetti di spazio e di paesaggio hanno prevalso (e prevalgono rispetto a quelli di tempo e di ambiente) nell’economia dei segni, dei testi, delle immagini, partendo da Foucault, dalla definizione di «utopie» ed «eterotopie» (con particolare interesse verso queste zone reali, peculiari: specie di microcosmi esistenti nella configurazione dell’abitato, dell’abitabile umano) e citando alcuni momenti essenziali della storia in cui s’è delineata e affermata l’idea di paesaggio, risalendo fino al Petrarca sul Monte Ventoso, dalle cui alture rimirava il paesaggio oltre le Alpi. È l’inizio della Theoria (la contemplazione suscitata dal paesaggio) al di là del Mythos (il racconto istruito dall’ambientazione) di cui poi Bandirali verifica la sussistenza in un momento fondamentale della cultura e del cinema contemporanei, quello del secondo dopoguerra in cui si affermano gli spazi inquadrati immediatamente prima o immediatamente dopo una qualche azione (in contesti domestici) da parte di Ozu e l’errare dei personaggi nel Neorealismo. In accezione deleuziana si direbbe l’«andare a zonzo» dei personaggi, senza una meta precisa, senza un approdo predeterminato, come avviene in Ladri di biciclette (1948) in cui il vero centro del film è la decentrazione, la «deterritorializzazione», detta ancora in termini deleuziani, che consente la continua scoperta della realtà, del suo mistero. Un cinema all’aria aperta allora – a cui ricorre anche un regista di interni come Ozu in Viaggio a Tokyo (1954) di cui Bandirali riporta delle fotografie di esterni alienanti – che in Italia aveva avuto degli antefatti già negli anni della guerra con Quattro passi tra le nuvole (1942) di Blasetti, I bambini ci guardano (1943) di De Sica e soprattutto Ossessione (1943) di Visconti.

DA LÌ SI ARRIVA naturalmente a Rossellini, al Visconti più maturo, a Emidio Greco, a Antonioni: non solo gli scorci spaesanti della cosiddetta «tetralogia esistenziale» ma anche l’errare della macchina da presa nel piano-sequenza finale di Professione reporter (1975), che scoprono quello che Gilles Clément chiama il «terzo paesaggio», fatto di luoghi residuali, di scarto, risulta dell’industrializzazione e della modernità accelerata. In questo senso di centralità ed espressività dei panorami residuali, virando verso la serialità, Bandirali individua in Anna (2021) di Ammanniti, l’unico esempio di serie tv pienamente paesaggistica, che elude gli schemi strettamente narrativi dei prodotti per il piccolo schermo, dando spazio a scenari, terzi paesaggi, significanti in sé, nel loro pressante, desolato caos.