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I minatori iraniani contestano Rouhani

I minatori iraniani contestano RouhaniUno dei minatori feriti mercoledì 3 maggio – Reuters

Iran A dieci giorni dalle elezioni gli incidenti in miniera e le condizioni dei lavoratori del settore estrattivo entrano nella campagna elettorale. L'economia resta centrale nel discorso di moderati e conservatori

Pubblicato più di 7 anni faEdizione del 9 maggio 2017

“Perché non c’è sicurezza in miniera? Perché a nessuno importa?”. Il portavoce dei minatori, domenica, ha dato voce alla disperazione dei colleghi costretti a piangere altre morti bianche. “L’anno scorso ci siamo ritrovati davanti all’ufficio del governatore con le nostre mogli perché non venivano pagati da 14 mesi. E tu, presidente, non lo hai nemmeno notato”.

I minatori entrano a gamba tesa nella campagna elettorale iraniana. A dieci giorni dalle presidenziali, la loro rabbia investe (fisicamente) il presidente Rouhani, alla caccia di un secondo mandato argine all’avanzata delle forze conservatrici.

Domenica Rouhani ha fatto visita alla miniera teatro di una strage: mercoledì un’esplosione ha fatto collassare un tunnel uccidendo almeno 32 persone. Solo 26 corpi sono stati ritrovati, uno stillicidio per familiari e compagni di lavoro che ha avuto come target l’auto presidenziale.

I minatori hanno circondato la macchina su cui Rouhani viaggiava, l’hanno circondata e dato pugni ai vetri, mentre urlavano l’ira per le condizioni in cui sono costretti a lavorare, sotto il giallo dei caschetti protettivi.

Il presidente ha parlato alla folla con difficoltà: “L’intera nazione iraniana condivide il dolore delle famiglie delle vittime nella miniera di Zemestan-Yurt. Siamo tutti responsabili di questo incidente”, ha detto ribadendo la necessità di rivedere le normative sul lavoro nel settore estrattivo e promettendo pene severe per i colpevoli, individuati dal presidente nella compagnia privata che gestisce la miniera.

Lo sanno bene i lavoratori che hanno inutilmente combattuto la privatizzazione quasi totale e la perdita di controllo statale su un’industria già poco regolamentata.

Così la dimenticata provincia di Golestan, area montagnosa a nord, una delle più ricche di carbone, si è fatta specchio delle recriminazioni del popolo iraniano, già dubbioso rispetto al voto del 19 maggio. I salari mensili a 250 dollari, la mancanza di sicurezza, gli orari di lavoro a 12-13 ore, i continui incidenti hanno acceso i riflettori sulla questione centrale di questa campagna: l’economia.

Sono migliaia le fabbriche in difficoltà, molte in ritardo sui pagamenti degli stipendi a causa di una stagnazione che il governo sperava di vincere con la fine di sanzioni internazionali e isolamento.

Ma gli effetti dell’accordo sul nucleare del luglio del 2015 sono ancora limitati. Il governo, espressione dell’ala più moderata della politica iraniana, tenta di reagire raccontando quanto di positivo è già stato archiviato: le esportazioni di petrolio aumentano, nel 2016 si sono registrati 11 miliardi di dollari di investimenti stranieri e 650mila nuovi posti di lavoro e il turismo è cresciuto del 30% con sei milioni di visitatori stranieri nell’ultimo anno (8 miliardi di dollari di entrate).

Ma il fronte conservatore approfitta delle difficoltà per accusare Rouhani di aver beneficiato in questi anni solo i ricchi, lasciando le classi più povere indietro.

Il presidente ha risposto ieri tacciando di estremismo i candidati conservatori, a partire dal religioso radicale Raisi e il sindaco di Teheran, Qalibaf: “Dico agli estremisti e a chi usa la violenza che la loro era è finita – ha detto durante un discorso nella città di Hamedan – Avete governato questo paese per otto anni e la gente ha visto cosa avete fatto. Noi vogliamo la libertà”.

Libertà, sì. Ma gli iraniani chiedono anche maggiore sicurezza economica e giustizia sociale. Non sono pochi gli scoraggiati e il timore – segnalato da alcuni sondaggi indipendenti – è un calo dell’affluenza alle urne.

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