I mille volti di Mitsuko Nagone
Intervista Secondo la fotografa giapponese «la continua ricerca di se stessi è di per sé limitante». Lo spiega bene nella nuova serie «New Self, New to Self»
Intervista Secondo la fotografa giapponese «la continua ricerca di se stessi è di per sé limitante». Lo spiega bene nella nuova serie «New Self, New to Self»
Ha un sorriso aperto e una straordinaria mimica, Mitsuko Nagone (Owase 1974, vive e lavora a Tokyo). Anche se solo sullo schermo – a Roma sono le 10 del mattino, mentre a Tokyo le 18 e qualcosa – appare finalmente il volto della fotografa. Nei suoi autoritratti non c’è mai. È proprio la serie New Self, New to Self, vista a Parigi in occasione di Fotofever (la fiera alternativa a Paris Photo che, non a caso, si svolge proprio al Carrousel du Louvre) nello stand della galleria Moderno di Tokyo ad incuriosirmi tanto da scriverle un’e-mail e fissare con lei l’appuntamento per l’intervista via skype.Questo suo progetto superironico che ha per protagonista una giovane donna alle prese con un’identità sempre nuova, circondata com’è da oggetti della quotidianità (spesso sono utensili da cucina, elettrodomestici, ma possono essere anche due uova fritte che coprono gli occhi come una mascherina per dormire), sta riscuotendo notevole successo sia all’estero (a partire dalla personale del 2012 alla Galerie Grand Siecle di Taipei) che in patria, dove si è appena conclusa la collettiva alla galleria hpgrp di Tokyo. Sono passati undici anni dalla sua prima mostra al Tokyo Metropolitan Art Museum (era il 2002) in occasione dell’esposizione di fine anno riservata agli studenti di fine corso. In questo intervallo di tempo la passione per la fotografia è cresciuta parallelamente alla consapevolezza delle sue potenzialità. Un lavoro che sconfina tra fine art photography e fotografia pura, quello di Mitsuko Nagone, che riesce a stupire con la freschezza del linguaggio e la capacità di esplorare un mondo interiore che condivide con l’osservatore.
Partiamo da «New Self, New to Self», una serie apparentemente divertente in cui ti autoritrai interpretando diversi ruoli femminili, ma celando il volto…
Quando uso il mio autoritratto quello che voglio esprimere non è me stessa, né la mia identità. L’autoritratto mi permette di inventare qualcosa di nuovo per creare una nuova personalità.
Quando hai iniziato a lavorare a questo progetto. Lo consideri concluso?
L’ho iniziato nel 2009. Finora ho una trentina di immagini, ma è un progetto che continua ancora oggi.
Che significato ha per te l’autoritratto?
Che sia un’immagine di me o di un’altra persona che sento simile a me, funziona ugualmente come autoritratto. Qualche volta può capitare che fotografando posso capire qualcosa di me stessa, soprattutto in questo progetto. Ma è veramente difficile trovare risposte. Le domande sono tante e mi servirebbe la vita intera per capire qualcosa di me. L’idea principale intorno a cui ruota New Self, New to Self , piuttosto, è provare a cercare di non pormi domande su me stessa, perché è troppo complicato. Voglio semplicemente mettere a fuoco il lato divertente, che è molto vicino all’idea di come mi piacerebbe essere. Sono ancora alla ricerca!
L’ironia è uno strumento che usi per analizzare/ribaltare gli stereotipi legati al ruolo della donna in Giappone, un po’ come fa l’iraniana Shadi Ghadirian in «Like Everyday» (Domestic Life) del 2002?
Non penso a ruoli femminili o maschili, prendo semplicemente degli attrezzi presenti nella mia vita di tutti i giorni. Chiunque può averli nel proprio quotidiano. Credo che nella creazione di se stessi non ci sia bisogno di cose speciali o di un momento speciale, ma è qualcosa che accade semplicemente nel quotidiano. Dato che sono una donna può darsi che gli utensili che ho scelto appartengano al mondo femminile. Riguardo Shadi Ghadirian conoscevo il suo lavoro, ma non sapevo che fosse lei l’autrice. Ci sono delle somiglianze nel mio lavoro e nel suo, legate al fatto che si tratta di ritratti con oggetti del quotidiano, ma viviamo in situazioni molto diverse. Io, poi, non nascondo mai completamente il mio volto.
È una strategia quella che adotti nella serie «Portraits», dove i soggetti ritratti non guardano mai verso l’obiettivo?
In quella serie volevo esplorare l’idea di distanza tra me e il soggetto provando, in questo modo, ad avvicinarmi alle persone. È anche vero, però, che è importante non avvicinarsi troppo. Una certa distanza aiuta ad avere rapporti migliori tra le persone.
Come nasce il tuo interesse per la fotografia?
Ci sono due cose importanti da dire prima di rispondere a questa domanda. La prima è che ero molto interessata alla moda. Ricordo di aver visto delle bellissime foto di moda in un catalogo dello stilista Yohji Yamamoto Quel catalogo mi piacque moltissimo e il mio desiderio era riuscire a fare foto come quelle. La seconda è che presi una macchina fotografica in occasione del mio primo viaggio a Londra, quattordici anni fa. Era anche il primo viaggio che facevo all’estero ed ero molto eccitata.
Pensi che ci sia qualcosa di Owase (nella penisola di Mie nel Kansai), la città dove sei nata e cresciuta, che torna nel tuo lavoro fotografico?
La mia città natale è in campagna. C’è la montagna, un fiume, l’oceano, una popolazione ridotta e poi nient’altro. Da bambina disegnavo e dovevo costruirmi i giochi, perché ne avevo di molto semplici. Dovevo sempre trovare qualcosa da fare. Non credo proprio che Owase sia presente nel mio lavoro fotografico. Del resto ho cominciato a studiare fotografia a 18 anni e prima non avevo alcuna idea di fare la fotografa.
È stata significativa l’esperienza newyorkese, dove hai studiato fotografia a LaGuardia Community College, prima di tornare in Giappone e laurearti alla Kyoto University of Art and Design?
Ho vissuto a New York per quattro anni e mezzo e ogni giorni succedeva qualcosa. Tutto è stato un’esperienza significativa. Ogni giorno era eccitante. Mi ha dato la possibilità di aprire gli occhi sugli spazi, sulle persone e sull’arte. Ho visto tantissime mostre, musei e gallerie. Avevo sempre gli occhi aperti! La cosa più importante che ho notato è che mentre in Giappone fotografia e arte erano viste come due categorie separate, a New York la fotografia era un’arte.
Nel tuo percorso formativo ti è capitato anche di lavorare come assistente di altri fotografi?
Ho lavorato come assistente di alcuni fotografi per brevi periodi, quando ero studentessa. È stato interessante osservare il loro modo di lavorare, ma a parte questo non sono state esperienze particolarmente significative.
C’è, comunque, un autore che ritieni più interessante di altri?
Amo Shoji Ueda. Non solo per il suo lavoro, anche per il fatto che si considerava un amatore. Diceva che non era un fotografo professionista, perché fotografa soltanto quello che gli piaceva. Quando era già anziano e stava facendo un servizio di moda sulla spiaggia, si avvicinò un gruppo di ragazzini curiosi di quello che stava facendo. Lui smise di fare il suo servizio di moda e iniziò a fotografare i ragazzini. Era una persona che si lasciava prendere dalla passione e riusciva a fare quello che voleva.
Cosa ti fa preferire l’uso del colore nelle tue fotografie?
Un tempo usavo anche il bianco e nero, ma per me il colore è una parte importante del mio lavoro. Non capisco la ragione per cui bisogna cancellare il colore. Viviamo in un mondo a colori!
Quali sono le maggiori difficoltà per una fotografa (donna) in Giappone?
Non penso che ci sia differenza tra donna e uomo. Personalmente non mi sono mai sentita a disagio in quanto donna. Piuttosto la mia vita privata è fortemente connessa con il lavoro. Tante nuove idee nascono proprio dal privato. Certe volte, però, è difficile trovare il tempo per lavorare creativamente.
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