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«I miei arrusi non ci sono più»

«I miei arrusi non ci sono più»Il regista Franco Maresco

Intervista Il regista Franco Maresco parla del Gay Pride di sabato a Palermo: «È giusto, necessario, ma temo che non lascerà traccia»

Pubblicato più di 11 anni faEdizione del 20 giugno 2013

Per Franco Maresco, regista irriverente che, insieme a Daniele Ciprì, pensò di celebrare i venticinque anni della morte di Pasolini con il film “Arruso”, termine del dialetto palermitano che sta per “frocio”, il Gay Pride nazionale in corso nel capoluogo siciliano è «un’altra delle manifestazioni politicamente corrette a cui ci ha abituato il nostro tempo. Qualcosa che non lascerà nulla dietro di sé. Siamo dentro al declino, ai tempi e ai modi dettati dalla società dello spettacolo. E il Pride è uno spettacolo, per quanto giusto e persino necessario. Spero che questa iniziativa serva a rimuovere un po’ di incrostazioni culturali, ma non ci credo».
Saverio, un borgataro, parlando di Pasolini nel film dice: «Era un bravo regista e un bravoarruso». L’effetto è esilarante quanto disarmante.

Da regista scettico racconto la merda che c’è in ognuno di noi. Saverio ha una sua onestà. Molti di quelli che vanno al Gay Pride, invece, sono dei Saverio leggermente adattati e in fondo non la pensano diversamente: se lui era la versione grezza dell’omofobia, i suoi seguaci sono la versione più avanzata e tecnologicamente attrezzata.

Come nacque l’idea di Arruso?
Tele+ ci chiese di pensare a qualcosa su Pasolini. Ci divertiva immaginarlo a Palermo durante un sopralluogo per un film, e a sera in giro per i quartieri popolari ad adescare ragazzi con sfrontatezza. Pasolini avrebbe approvato la nostra scelta. Del resto, a celebrare il “maestro di vita” ci hanno pensato un po’ tutti. L’anno precedente, nel ’99, ci eravamo già cimentati con il tema dell’omosessualità, girando un episodio poco noto, Noi e il Duca, per ricordare quando Duke Ellington suonò a Palermo negli anni Settanta. Abbiamo mescolato reale e irreale, usando immagini di repertorio e personaggi improbabili. Ne venne fuori che anche il grande musicista era arruso. Non era soltanto una nostra fantasia: forse non tutti sanno che le persone che più amò furono la madre e il suo alter ego Billy Strayhorn. Nella storia che abbiamo raccontato, Duke Ellington si scambiava occhiate con un nostro personaggio, Tirone, il ciclista di Cinico tv, che finì per essere soprannominato dal quartiere Duchessa Ellington.

I tuoi personaggi come commenterebbero il Gay Pride?
Non ci sono più, sono scaduti. Io e Ciprì sapevamo che stavamo cogliendo gli ultimi bagliori di un mondo che stava per scomparire. Non sono stati loro a regredire, ma la città. Qualche settimana fa è morto Franco Scaldati, che considero il più grande poeta siciliano insieme a Giovanni Meli, e il più grande drammaturgo che abbia avuto Palermo. Può dirsi civile un luogo che non gli ha mai dato la possibilità di avere un teatro o almeno uno spazio dove poter provare con la propria compagnia? Ho collaborato con lui a partire dalla metà degli anni Ottanta, in un’altra Palermo. Negli ultimi tempi era sconfortato, sentiva che la sua drammaturgia, in quarant’anni di attività, non aveva avuto alcun riconoscimento da parte delle cosiddette istituzioni. Provavo una gioia fisica nel parlare con lui e i nostri discorsi cadevano sempre più spesso sull’imbarbarimento di Palermo, città che Scaldati aveva letto come nessun altro. Lo scorso settembre, in uno dei nostri incontri, Scaldati tirò fuori una battuta in dialetto sui gay che avevano assunto ruoli importanti nel nostro mondo e che ora ce la stavano mettendo in culo. L’avesse detta qualcun altro, sarebbe stata una frase volgare. Ma lui la pronunciò come se stesse recitando in uno dei suoi spettacoli e poi scoppiò in una risata. L’estrema utilizzazione del politicamente corretto ha castrato la parte più vitale del cinema e del teatro. Non mi sognerei mai di sindacare le scelte sessuali di chicchessia, ma devo poter dire arruso, perché anche i gay possono essere degli imbecilli. Nel ’91, in una serie di Avanzi condotta da Serena Dandini, un nostro personaggio, interpretato da Marcello Miranda, si esibiva nel tormentone di un suicida che di episodio in episodio provava a farla finita, mentre ogni volta uno zio lo esortava a desistere. Ma era afono e rantolava. Ci dissero che non si poteva fare: avremmo offeso gli afoni.
Ripeto quel che sento in giro sul tuo conto: un disfattista che contrappone passato e presente e non lascia speranze.
Dico che gli anni Settanta, quelli di Ciancimino, di Lima, della mafia imperante, furono anche anni in cui si aprivano i teatri sperimentali, arrivavano i grandi nomi del jazz, c’era il Festival pop e, soprattutto, c’era una Palermo con un carattere riconoscibile che si confrontava con l’esterno, con l’altro. Ora se due ragazzi litigano per strada (è una scena alla quale ho assistito di recente) si comportano come se fossero davanti a una telecamera. La società dello spettacolo ha piallato ogni nodo e vedo un’umanità smarrita, tutta pub e facebook, come ovunque.
Qual è la cosa che più ti preoccupa di questo processo d’omologazione?
Non la dittatura culturale della destra, ma il conformismo di questa specie di sinistra post-Pci. In Italia l’industria culturale è oscena, quella del cinema è un orrore. Dicono che Maresco è duro e puro. In verità, non ho avuto la capacità e la voglia di entrare nel sistema. Daniele Ciprì l’ha fatto e ha dovuto pagare il conto in termini di autonomia e coerenza.
Da quando tempo non senti osservazioni sulla tua presunta misoginia?
Da un po’. Prima era un tormentone. A Milano, nel ’95, dopo la proiezione di Lo zio di Brooklyn, stavamo per andare via indenni, quando dal pubblico arrivò la fatidica domanda di una signora: «Perché nei vostri film non ci sono donne?». Stavo per rispondere che donne e bambini rappresentano la continuazione della vita, il futuro; e dunque non c’era spazio, per loro, nella nostra poetica. Ma Ciprì mi precedette e disse: «Non è vero, c’è un’asina all’inizio del film». Successe un casino. La rivista Ciak titolò: «Ciprì e Maresco, qui casca l’asino». Non ci stavo allora e non ci sto adesso: rivendico il mio diritto di espressione, senza censure. Rivendico il senso delle cose, le conseguenze emotive e politiche che l’espressione del pensiero deve lasciare. Oggi tutto scivola via, e i cosiddetti intellettuali tacciono.
Non è un caso, soprattutto in Sicilia, che si debba ricorrere a Sciascia, morto un quarto di secolo fa, per avere le analisi più fresche su quello che accade oggi.
Persone come Sciascia ai nostri tempi non avrebbero più ruolo. Una volta gli intellettuali avevano una funzione legata al mezzo: i giornali, i libri, il cinema. C’era una gerarchia che dipendeva dalla qualità e serietà delle loro analisi. Oggi comandano i social network, ognuno è una micro testata. Il pubblico è arrogante e pretende, riuscendoci, di orientare scrittori, registi, a loro volta appagati da un narcisismo assoluto. Ai giovani che leggono poco ho un consiglio da dare: scegliete bene gli autori e i testi. Leggete Simenon, Dostoevskij. Lasciate stare Roberto Alajmo, uno che ha la pretesa di capire Palermo frequentando salotti.
Il tuo film Belluscone che fine ha fatto?
È un lavoro autofinanziato e procede a rilento. Ora è entrato nel progetto anche Pietro Marcello. Abbiamo rivisto un po’ di cose: c’è Tatti Sanguineti che conduce la narrazione cercando un regista, Maresco, che ha lasciato il film a metà perché senza soldi. Lo cerca in giro per Palermo, incontrando creditori incazzati e ristoratori imbufaliti per i conti non pagati. Entra in scena anche un figlio illegittimo di Berlusconi. Ci siamo ispirati a Mister Arkadin di Orson Welles.

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