Lavoro

I licenziati Fiat chiedono udienza al neopresidente Mattarella

I licenziati Fiat chiedono udienza al neopresidente MattarellaLa protesta inscenata qualche giorno fa dai cinque operai licenziati davanti alla Fiat/Fca di Pomigliano – Lapresse

Pomigliano Cinque operai hanno raggiunto ieri il Quirinale: non sono riusciti a vedere il presidente, ma sperano che la loro causa si concluda con un reintegro

Pubblicato quasi 10 anni faEdizione del 5 febbraio 2015

Martedì Marco Cusano si era simbolicamente crocifisso al’’ingresso due della Fca di Pomigliano d’Arco, in contemporanea con la cerimonia di insediamento del neopresidente della Repubblica Sergio Mattarella. Ieri con quattro compagni del Comitato di lotta cassintegrati e licenziati Fiat si è messo in viaggio verso il Quirinale per recapitargli di persona una lettera.

«Alle quattro di mattina ci hanno chiamato i carabinieri – racconta Mimmo Mignano – per annunciarci che a Roma saremmo arrivati scortati. Al casello di uscita i carabinieri di Castello di Cisterna sono stati rilevati dai colleghi capitolini e, a 300 metri dalla sede presidenziale, è subentrata la Digos che ci ha bloccato. Le nostre sono dimostrazioni pacifiche ma ferme, così alla fine, intorno alle 13.30, Marco ha varcato il cancello e consegnato la lettera alla segreteria di Mattarella. La ricezione della nostra missiva rientra ufficialmente tra i primi atti compiuti dall’attuale presidenza della Repubblica. Per la prima volta un povero cristo scende dalla croce e sale al Quirinale».

I cinque sono stati licenziati il 20 giugno per aver inscenato un funerale e poi l’impiccagione di un manichino raffigurante l’amministratore delegato Sergio Marchionne all’ingresso della Fiat di Pomigliano e davanti i cancelli della sede Rai di Napoli. Quattro colleghi del reparto logistica di Nola, in cassa integrazione perpetua dal 2008, si erano suicidati, l’ultima si era tolta la vita a fine maggio.

«Siamo stati licenziati per rappresaglia. Il presidente ha detto di pensare ai deboli, eccoci qui, siamo noi gli sfruttati e i diseredati. I nostri sono gesti simbolici, per ribadire che bisogna riorganizzarsi dal basso e passare all’attacco», spiegano. Sono a Roma per chiedere il rispetto della legge Fornero: «La norma prevede che la prima udienza tra il lavoratore e il datore di lavoro avvenga entro 40 giorni. Per noi è stata fissata dopo un anno, a maggio. Dal mese prossimo saremo senza sussidio di disoccupazione, 650 euro al mese. Marchionne può permettersi di aspettare, noi no. Il presidente del tribunale di Nola dice che non dipende da lui ma dalla carenza di personale. Gli avvocati del lavoro denunciano cause messe in quarantena per mesi. Vorremmo che il presidente Mattarella si facesse sentire».

Oggi gli operai distribuiranno la lettera all’ingesso dello stabilimento di Pomigliano, dove la produzione continua a non assorbire tutta la manodopera che c’era sulle linee prima del 2010.

I lavoratori sono tornati in fabbrica martedì scorso, dopo sei giorni di stop. La catena di montaggio si fermerà ancora il 23 febbraio e non è chiaro per quanti giorni. Le tute blu partenopee erano rientrate solo il 7 gennaio, dopo un lunghissimo ponte natalizio. Le vendite della Panda non tirano, nonostante sia uno dei modelli più venduti in casa Fca.

Dove si realizza l’utilitaria, il settore A, gli addetti sono impiegati stabilmente anche se pure loro hanno iniziato a fare un po’ di cassa integrazione. Negli altri segmenti si alternano in 2 mila a rotazione con il contratto di solidarietà, una rotazione diseguale dove qualcuno lavora pochi giorni al mese e altri fino all’80%.

Dei 300 che erano stati relegati a Nola, nel reparto confino come lo chiamano tutti perché raccoglieva gli operai più sindacalizzati e/o con Ridotte capacità lavorative, solo 60 lavorano.
Anche per loro la rotazione segue i voleri dell’azienda. Per far rientrare tutto il personale ci vorrebbe un nuovo modello in produzione su una seconda linea ma il clima tra i lavoratori è di sfiducia e rassegnazione. «L’azienda – raccontano – ha convinto i dipendenti che i sindacati non servono. Le pressioni psicologiche sono fortissime e le rappresaglie continue non aiutano».

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