Cultura

I legami stretti tra nutrimento e scrittura

I legami stretti tra nutrimento e scrittura

SCAFFALE «Il gusto di una vita», di Iaia Caputo per Enrico Damiani editore

Pubblicato circa 4 anni faEdizione del 9 ottobre 2020

La memoria sensoriale è la meno bugiarda. Così scrive Iaia Caputo nel suo ultimo libro, Il gusto di una vita (Enrico Damiani editore, pp. 142, euro 15), memoir piccolo e prezioso che non a caso porta in epigrafe un passaggio tratto da Casalinghitudine, di Clara Sereni. Come lei, anche Caputo ha inteso accordare sulla pagina lo svolgersi di un’esistenza al cibo, al nutrimento e all’avanzare – degli anni e delle cose. Sono pesi sostenuti nel movimento tra il troppo pieno e il talmente vuoto, immagini che ritornano in anfratti domestici in cui l’occhio, di una scrittrice e di una donna, si stringe per aguzzare lo sguardo fino alla massima precisione, sullo sfondo di Napoli Roma e infine Milano.

NEL TESTO di Caputo la connessione di apprendistati culinari e cerimonie degli affetti viene a rammendarsi con gli esercizi di scrittura fin da giovanissima insieme a mutevoli stagioni politiche, lambite con garbo e ironia. C’è una comunanza tra parola e cibo, saldate al pari di scrittura e cucina. Che le scrittrici ne abbiano reso conto con maggiore sapienza non indica il tempo trascorso ai fornelli quanto piuttosto l’aver intercettato un legame di significanti imprevisti tra preparazioni, dal recupero dei materiali alla qualità di un accostamento esperienziale. Anche una donna che scrive è in relazione necessaria con il nutrimento, ne dispone sempre per eccesso o per difetto fino a diventare cosciente «addomesticazione del caos», come spiega la stessa Caputo.

Quale consistenza abbia allora un simile caos si evince dalle prime righe, là dove l’esordio di questa vita è delegato ad alcuni ricordi dell’infanzia che fanno parte del corredo presente in ogni scena dell’origine; non serve sia tutto vero, importa piuttosto che qualcosa abbia fatto resistenza avendo la forza di restare, talvolta indigeribile, e che a lungo andare si sia trasformato in una lontananza fantasmatica. Iaia appena nata strappa alla propria madre, così viene tramandato, un frammento di capezzolo. Da qui, l’oralità diventerà luogo malinconico, di indifferenza, di una richiesta che spaventa per aver fatto o non aver fatto la cosa giusta. È una immagine letteraria sontuosa per rappresentare il bisogno, il prodigio irrisarcibile ed esposto della propria fame – come Caputo riconoscerà anni dopo alla tata di famiglia. In quella dismisura passa tutto, l’averla attraversata le ha consentito, per esempio, di mondarne l’eccesso di sonnambulismo notturno che alle quattro del mattino la faceva sollevare dal letto per mangiare.

LA SOLITUDINE insaziabile è insonne, reclama un radunarsi affollato di qualsiasi disamore commestibile. Sono tuttavia brevi inserti, dolorosi e autentici ma controllati da chi maneggia la scrittura già in maniera metodica e ha imparato a fare un piatto di pasta da maggiorenne. Il tragitto scelto è dapprima nella fusionalità genitoriale che fino alla prima adolescenza si consuma a Napoli, con la pizzetta di Moccia come madeleine, i taralli di Mergellina, gli struffoli come ciliegie e i rustici per poi mutare nella conquista dell’autonomia, simbolica anzitutto.
Se il debutto dell’amore di sé è tardivo, ben presto Iaia Caputo apprende la passione per una materialità che è dotata di differenza femminile, non solo di un corpo meccanico ma di un senso liberato che dalla sopravvivenza passa al nutrire un’altra creatura; la prima maternità, vissuta a 19 anni, le rivela tutta la fragilità di cui è fatta. E di cui riesce a parlare solo in terza persona, con l’intera voragine del non detto, come quelle intimità primordiali da cui si sposta la mano per non scottarsi, della stessa temperie sono certi amori impronunciabili che si scoprono nella separazione prematura – quella dal proprio padre, scomparso anzitempo.

LA GRATITUDINE verso quelle bambine però, lei stessa e sua figlia, è in ciò che si è appreso. Ancora una volta. Ci si disciplina nell’accudimento di sé, nel seguire ricette non troppo elaborate eppure reinventate con talento e dedizione. Facendo attenzione alle vicende degli altri, osservandone le millimetriche variazioni e immaginando finali possibili.
Perché Il gusto di una vita è anche un quaderno di consigli rivolto a chi ama scrivere. Sono disinteressati di sguardi allenati al sottosopra. E sottili di pellicola in cui si ripone una mousse per ospiti senza nome. La memoria sensoriale è la meno bugiarda, è così, insieme al piacere di desiderare, un incontro capace di puntellare la forza erotica che spinge al futuro.

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