Una delle cose più sconcertanti dell’interminabile campagna elettorale americana è il modo in cui i media e gran parte del campo democratico hanno proiettato un’immagine dei presunti elettori di Trump come totalmente alieni, altri da sé.
Lasciamo perdere il fatto che questo stereotipo – bianchi, proletari, maschi, ignoranti – non rende conto della base elettorale del candidato repubblicano, che è sfortunatamente molto più vasta e comprende settori non trascurabili di classe media (nel senso europeo) che si sente precaria e a rischio, precisamente come i siderurgici di Youngstown, e come loro reagisce.
Quello che sconcerta è il fatto che finché hanno fatto comodo queste figure – bianchi, anglosassoni, protestanti, lavoratori, residenti dell’America profonda… – sono stati per secoli identificati come la spina dorsale dell’America. Allontandoli da sé come l’altro assoluto, l’America liberale cancella in realtà una parte di sé, e quindi una sua pesante responsabilità in quello che queste persone sono diventate.
Come dice Bruce Springsteen, l’establishment liberal è diventato abbastanza ricco da non ricordarsi più come si chiamano. Non se lo ricordano anche perché hanno sempre fatto in modo di non conoscerlo.
Ricordo, guardando la televisione in casa di famiglie di minatori (bianchi e neri) in Kentucky, di essermi domandato: ma come mai facce come quelle di questa gente non si vedono mai in televisione?
Qualche tempo dopo, a Boston, la televisione accompagnava la notizia (breve e in fine di telegiornale) di un drammatico sciopero di minatori in Kentucky con una mappa – come faremmo noi per un’inondazione in Bangladesh – necessaria per far capire agli spettatori dove si trovano quei luoghi esotici e sconosciuti.
Questi hillbillies montanari sono stati di volta in volta l’immagine romantica (e inventata) del «puro sangue anglosassone», e quella (altrettanto inventata) del selvaggio stupratore di Un tranquillo week-end di paura. Poveri da aiutare e compatire perché incapaci di farlo da sé, o incontrollabili contrabbandieri di whisky clandestino (oggi, di marijuana).
Adesso le miniere chiudono, il carbone che è stato la loro vita, il loro orgoglio e la loro identità non è più l’energia che manda avanti l’America ma minaccia per l’ambiente (per questo si sono convinti che Obama sta facendo «la guerra contro il carbone» e nessuno – assolutamente nessuno – si è preoccupato di pensare che cosa faranno e di proporgli altre strade, altre possibilità.
I reportage del New York Times parlano di loro con lo stupore di chi si inoltra nel cuore sconosciuto di un continente alieno. Sanno benissimo che non sarà certo con Trump che magicamente si riapriranno i posti di lavoro in miniera, ma – molti, non tutti – lo voteranno, se non altro, per frustrazione.
Eppure, non sarebbe inevitabile.
Queste stesse realtà sono state la punta di diamante del sindacalismo americano (la loro canzone, Which Side Are You On?, da che parte stai?, la cantavano a Occupy Wall Street); è partita da qui, in West Virginia, nel più povero bianco e minerario di tutti gli stati, l’ondata che portò Kennedy alla presidenza.
Sono affetti dal razzismo, come tanta parte dell’America; eppure è stato il loro sindacato il primo a trattare bianchi e neri come uguali sul posto di lavoro.
Ma a partire almeno dagli anni ‘70 il sindacato li ha abbandonati, convinto che l’unico modo di salvare qualche posto di lavoro sia di allinearsi alle strategie aziendali che distruggono sia l’occupazione, sia l’ambiente.
Il partito democratico ha smesso da molto tempo di considerare i lavoratori la propria base elettorale, e ha contribuito a rendere più deboli e subalterne le loro organizzazioni. Barack Obama aveva promesso di eliminare alcune delle strettoie burocratiche che ostacolano la libera scelta di iscriversi al sindacato, ma una volta eletto se ne è dimenticato. In altre parole – e lo ha scritto molto bene in un libro recente Thomas Frank – se tanta parte della classe operaia è finita in braccio prima a Reagan e poi a Trump è anche perché quelli che erano i loro referenti storici ce l’hanno buttata.
I «Reagan Democrats» e i «Trump Republicans» sono in buona parte una creazione dei liberals. Eppure non sarebbero irrecuperabili: i sondaggi mostravano che almeno una parte degli elettori di Trump sarebbe stata disponibile a votare per Sanders, che se non altro dava l’impressione di parlare anche a loro – e gli diceva cose molto diverse da Trump.
Adesso è fatta, e spero che prevarrà il male minore (ma non per questo trascurabile). Ma poi non è che questa gente sparirà. Più i sistemi elettorali negano rappresentanza a marginali e scontenti, più la scontentezza prenderà altre forme, si manifesterà in altri modi.
Se non cominciamo subito a imparare di nuovo i nomi di queste persone dimenticate e stigmatizzate, a rivolgerci a loro come a cittadini con diritti che contano qualcosa, succederà qualcosa di più grave e più profondo: un allontanamento crescente di sempre più cittadini dalle istituzioni della democrazia; un accentuarsi del potere oligarchico di cui sono già adesso rappresentativi, sia pure in modi diversi, entrambi i candidati. Con esiti imprevedibili negli anni a venire.