Aumentano i laureati con il contratto a tempo indeterminato, modello Jobs Act, ma calano gli stipendi già bassi, anche a causa dell’inflazione. Il 26esimo rapporto sulla condizione occupazionale dei laureati presentato ieri dal Consorzio Almalaurea a Trieste fotografa la realtà del lavoro in Italia: ce n’è poco e, quello che c’è, è pagato sempre peggio. Senza contare un Welfare a pezzi. E la prospettiva di lavorare fino a 70 anni. Questa è la previsione del simulatore delle pensioni dell’Inps per i trentenni di oggi. Per chi è più giovane il lavoro è un fine pena mai.

L’inchiesta indaga la condizione di 660 mila laureati di 78 atenei e sostiene che il 34,9% tra gli occupati di primo livello, e il 26,5% tra quelli di secondo livello, ha un contratto a tempo indeterminato. Sono precari il 30% e il 25,1%, rispettivamente. Chi ha un contratto di formazione si ferma al 17,5% e al 25%. Non solo quasi la metà del campione è precaria. Ma gli altri che non hanno un contratto cercano lavoro e alternano occupazioni.

Le soglie del salario di primo ingresso appaiono piuttosto alte. È possibile che, a un anno dal titolo, ai laureati di primo e di secondo livello sia offerto un impiego a 1.250 euro, per esempio. Chi accetta l’impiego è poco più di un terzo del campione (38% e 32,9%). Dipende dai settori: può accadere più a un ingegnere o a un medico che non a un laureato in lettere. E dipende se si vive a Sud o al Nord, dal genere (le donne sono le più laureate ma sono più precarie). O dai rapporti personali. Questi ultimi sono i canali privilegiati per trovare un lavoro. E dipendono dalla classe sociale.

Più spesso le paghe sono inferiori. E si presume che siano integrate dalle famiglie. II «mercato del lavoro» serve a tenere bassi i salari e a finanziare gli speculatori immobiliari e dell’inflazione attraverso il Welfare familiare. Questo accade a chi ha una famiglia che conta su redditi e patrimoni. Chi non ce l’ha finisce per non andare all’università.
Il confronto con gli stipendi esteri è impietoso. I laureati di secondo livello che si sono trasferiti all’estero dicono di percepire, a un anno dalla laurea, 2.174 euro mensili netti, +56,1% rispetto ai 1.393 euro di chi è rimasto in Italia. A 5 anni dalla laurea, fuori dai confini nazionali la retribuzione è di 2.710 euro; con un +58,7% rispetto ai 1.708 euro italiani. Parliamo di una minoranza (4% e 5,5%, rispettivamente, del campione), ma il dato è storicamente comprensibile. I salari in Italia sono bloccati dall’inizio degli anni Novanta. Questa è la conseguenza sui laureati.

Un lavoro per laureati è pagato relativamente di più di quello dei diplomati, ma le paghe sono in calo per i laureati a uno, due o cinque anni dal conseguimento del titolo. Almalaurea sostiene che si sono abbassate ulteriormente a causa della mega inflazione degli ultimi due anni. E solo in alcuni casi della contrattazione nazionale è stato previsto un recupero comunque insufficiente del potere di acquisto. Figuriamoci per chi continua a subire un’aggressiva svalutazione dei saperi, e dei titoli che ne dovrebbero attestare un valore. Chi ha studiato per cercare un lavoro negli ultimi 30 anni in Italia ha conosciuto le conseguenze della perdita di senso sociale, oltre che professionale, dell’istruzione.

C’è una notizia positiva. I laureati sono sempre meno disponibili ad accettare lavori a basso reddito o che non sono coerenti con il percorso di studi. Chiedono flessibilità, tempo libero e qualità relazionali. La tendenza non è nuova anche se è stata occultata, e rovesciata di senso, da diversi anni. Destre e sinistre liberiste, professori nominati ministri, conservatori al servizio del capitalismo più straccione d’Europa li hanno trattati già in passato da «bamboccioni». Se non accettano lavori modesti, non vogliono lavorare. E invece la loro è una forma di resistenza silenziosa, fino a quando è possibile. Un segno di vitalità da quando il «lavoro» ha perso valore sociale e non è considerato il campo delle rivendicazioni e del conflitto.