Un disco di cui si potrebbe parlare ore per quanto variegato e non etichettabile. Non a caso gli I Hate My Village vengono definiti un super gruppo, visti i talenti di chi lo anima: Adriano Viterbini (anche nei BSBE), Fabio Rondanini (Calibro 35), Marco Fasolo (Jennifer Gentle) e Alberto Ferrari (Verdena). Dopo l’omonimo album del 2019 che poteva sembrare un’opera estemporanea, anche perché venuto alla luce in qualche settimana di lavoro, in Nevermind the tempo (Locomotiv Records) siamo in una jam session che simula un passo sbilenco ma che, già dal primo ascolto, raggiunge la complessità strutturata e matura che deve avere un disco che vuole esprimersi in libertà. Al telefono ci sono Viterbini e Rondanini in pausa dalle prove, gli domandiamo come riescono a lavorare insieme artisti così diversi: «Ci siamo incontrati e piaciuti proprio per queste differenze. Eravamo ognuno fan degli altri, insieme riusciamo a vedere le cose da un punto di vista diverso e cresciamo artisticamente, per esempio in modo pratico sull’utilizzo dell’effettistica» afferma Rondanini.

ANCHE IN QUESTO disco c’è molta Africa, dai suoni africani si arriva al rock psichedelico in una gamma inesauribile di suggestioni, come racconta Rondanini: «C’è un recinto chiaro, insieme volendo potremmo fare veramente molti generi diversi, ci siamo costruiti dei giochi che mettono in bolla tutte le personalità. La musica africana è un punto di partenza da cui non abbiamo preso l’approccio tecnico che, spesso, è meravigliosamente inconsapevole e incomprensibile per un occidentale. Ci interessa l’attitudine, cioè celebrare il momento in cui si suona, divertendoci e commovendoci con il pubblico».Ci interessa l’attitudine dell’afrobeat, cioè celebrare il momento. Da noi a una certa età cominciano ad addolcirsi, a diventare più pop e poi inevitabilmente cantautoriIl titolo viene da una frase di Ferrari per un brano che non è stato utilizzato nel disco, tanto per tornare alla libertà creativa della band, «descriveva la sensazione che stavamo vivendo, cioè quella di dirsi chi se ne frega del tempo, facciamo musica senza pressioni né scadenze. Fare un album è un lavoro mentale, significa fare passi avanti, indietro, scontrarsi» ci dice Viterbini. Questa volta il lavoro è durato più di un anno, se il primo disco nasceva strumentale, questo, in parte, si è sviluppato sulle linee melodiche scritte di getto da Viterbini; come l’altro album, Nevermind the tempo è stato registrato su nastro ma anche digitalizzato su demo in un processo, come dicono loro, «accartocciato», «appunti usati come un Frankenstein». Il fatto di non essere collocabili facilmente in generi e avere uno spettro estremamente ampio di sonorità li rende poco affini al mercato italiano: «È un vantaggio, ci dà soddisfazione, ma non vuol dire essere strani a tutti i costi. È frutto di un approccio leggero, è proprio un disco di canzoni! Nei festival europei l’afrobeat è come fosse la techno, e quindi anche i derivati sono al centro di situazioni cruciali. Non guardiamo all’Italia, all’Europa o al mondo, facciamo musica e basta, i dischi che vorremmo ascoltare ce li facciamo da soli!».

E SUL FATTO che, specialmente il rock/indie italiano, non riesca a trovare un riconoscimento fuori dai confini, Viterbini afferma: «Da noi a una certa età cominciano ad addolcirsi, a diventare più pop e poi inevitabilmente cantautori. Invece in California continuano, ci credono, il mercato italiano lavora per il mercato italiano, e i musicisti si abituano a questo paesaggio, pensando che sia l’unica via. La musica ha sempre bisogno di maestri, a un certo punto devi andartene in Africa o in America per confrontarti e metterti in discussione, oppure sei talmente bravo nel locale che tu diventi di tutto il mondo, come ci insegna la musica africana… Bombino canta in tamasheq al Coachella senza smussare nulla per piacere degli americani».