La crisi della scuola italiana rappresenta certamente un aspetto grave del nostro complessivo declino. Non è nelle mie intenzioni ripetere qui le già note questioni relative all’aziendalizzazione esclusivamente funzionale delle istituzioni formative.

Negli ultimi decenni, ed in modo particolare dopo la regressiva pseudo riforma del governo Renzi, la scuola in grandissima parte è diventata una labirintica macchina burocratica che blatera in modo coatto su competenze e contenuti digitali, abbandonando la via di un solido collegamento tra le possibili conoscenze umanistiche e scientifiche.

A questo bisogna aggiungere che, nonostante l’inflazionata retorica sulla centralità dello studente, in realtà è scomparsa completamente la cura dell’individuo in quanto soggetto irripetibile e unico.

Nella nostra pur drammatica collocazione in natura, la scuola dovrebbe proprio assumersi il compito di connettere le conoscenze possibili in un gioco di vita, in grado di arginare le incombenze sempre presenti della paura e della pigrizia mentale. Negli ultimi anni soprattutto ha preso il sopravvento un dirigismo lontanissimo da ogni forma virtuosa di cooperazione e le decisioni riguardanti la vita quotidiana della scuola vengono prese da un ristrettissimo gruppo di persone. Ci troviamo di fronte, di fatto, ad un vero e proprio dominio dirigenziale aggravato anche dal gusto di poter disporre, con vera e propria libidine di comando, del tempo e delle capacità di docenti e studenti, limitando l’arricchimento delle facoltà inventive e non riducibili al semplice uso delle tecnologie moderne. Non c’è più una verifica adeguata sui contenuti conoscitivi; insegni male Cartesio, Galilei o Platone? Non interessa più alla dirigenza, attenta soltanto a che il PCTO o altri progetti imposti dal ministero siano formalmente a posto e spendibili sul mercato dell’offerta scolastica. Stupisce che un dirigismo del tutto miope e asfittico venga retoricamente chiamato «gioco di squadra». Niente di tutto questo, l’effettiva cooperazione è difficile trovarla e il rispetto per le sensibilità personali si perde.

Non è esagerato concludere dicendo che nella scuola italiana odierna si respira «un’atmosfera ferina», tesa proprio al piacere della sussunzione e di poter quindi chiudere in una gabbia le facoltà e la creatività umana.

Il rimedio che si potrebbe auspicare sarebbe quello di tornare a forme di collegialità, già sperimentate in passato, abbandonando gli aspetti autoritari del dirigismo, aggiornando ovviamente la comunicazione linguistica e filtrando gli aspetti fecondi per la formazione che pur si possono trovare nella modernità.

La precondizione rimane quella di staccare la scuola dal modello aziendale, proponendo un umanesimo in grado di valorizzare la ricchezza delle differenze soggettive. I contenuti, scientifici ed umanistici, devono tornare al centro della attività didattica, senza essere compressi dalla furia digitale. Sarebbe anche auspicabile ritornare alla figura del preside come “primus inter pares”, chiudendo la fase storica devastante e decadente del dirigente scolastico, che oggi arriva a guadagnare da 70.000 a 100.000 euro all’anno, a fronte dei 35.000 euro di un pur valido docente alla fine della carriera. Una disuguaglianza sproporzionata e difficile da sopportare, considerando anche che gli insegnanti italiani sono tra i peggio pagati d’Europa.