Cultura

I graffiti, tra semiotica popolare e governance urbana

I graffiti, tra semiotica popolare e governance urbanaFoto Ansa

Scaffale Il fenomeno al centro del nuovo romanzo di Vanni Santoni, «Dilaga Ovunque» (Laterza). Per l'autore, dopo la scena rave di "Muro di Casse" (2015) e gli scantinati dei giochi di ruolo con "La Stanza Profonda" (2017), ora è il turno del writing, della street art, del mondo dei graffiti che hanno riempito sempre più le nostre città, un mondo denigrato e ostracizzato oppure celebrato e incorniciato ai fini del reinserimento in dinamiche di valorizzazione economica

Pubblicato più di un anno faEdizione del 18 luglio 2023

«A chi appartiene, allora, la città?». Dalla genealogia tipografica delle prime tag nella Philadelphia degli anni ‘60 alle metropolitane europee degli anni ‘80 e poi in Italia, con i suoi 16500 km di linee ferroviarie da sgraffittare, Vanni Santoni ci accompagna col suo nuovo romanzo, Dilaga Ovunque (Laterza, pp. 144, euro 16), alla scoperta di un’altra sottocultura contemporanea e delle sue relazione con la cultura di massa. Dopo la scena rave di Muro di Casse (2015) e gli scantinati dei giochi di ruolo con La Stanza Profonda (2017), ora è il turno del writing, della street art, del mondo dei graffiti che hanno riempito sempre più le nostre città, un mondo denigrato e ostracizzato oppure celebrato e incorniciato ai fini del reinserimento in dinamiche di valorizzazione economica.

FORSE IL MENO NARRATIVO della trilogia, il libro racconta di vita quotidiana e scorribande notturne di un gruppo di writers, che nelle loro discussioni e nei loro pensieri ripercorrono le molte genealogie possibili di un fenomeno complesso e non ben definito. Quando l’essere umano ha iniziato a scrivere sui muri, ma soprattutto quando ci ha preso gusto nel farlo? Si può risalire alle pitture rupestri di Lascaux e Valcamonica di 30mila anni fa, oppure vedere un germe di tag nella sfacciataggine di Rimbaud che incide il suo nome su un tempio egizio, come ancora in quel funzionario pubblico dell’Impero austro-ungarico che incideva il proprio nome su qualunque monumento incontrasse sulla strada, tanto da essere convocato dall’imperatore per essere redarguito. La firma sul muro d’altronde rappresenta una sfida, al potere che governa lo spazio ma anche ai propri limiti, una scommessa di arrivare su quel traliccio su cui nessuno è mai arrivato prima con una bomboletta.

È UNA GUERRA SEMIOTICA, combattuta a suon di invenzioni di stile da una parte e spugnette dall’altra, che con le armate del decoro e gli angeli dei muri puliti è arrivata a cancellare opere di valore (come il Keith Haring cancellato a Roma nel ’92 dal sindaco Carraro per la visita di Gorbaciov), o addirittura reperti storici scambiati per graffiti. D’altronde la definizione di ciò che vale o non vale la pena tenere è sempre più dettata dal capitale, e a qualche writer questo non va giù. La mairie del 13esimo arrondissement di Parigi ha votato una mozione per non rimuovere più graffiti, disegni, stencil e sticker così da alzare il valore immobiliare degli appartamenti, mentre a Berlino Blu cancella i suoi pezzi a Kreuzberg dopo averli visti pubblicati sugli annunci immobiliari.

L’uso della fascinazione pop del graffito per estetizzare normazione e sfruttamento avviene di continuo, più o meno velatamente, in città e fuori città, se pensiamo al mastodontico David di Michelangelo dipinto dal brasiliano Kobra nelle cave di marmo di Carrara in segno di elogio e ammirazione per i frutti della devastazione. Fuori dalle gallerie d’arte dedicate a Bansky o Haring, imperversa invece la repressione verso l’arte di strada, culminata a volte in tragedie come la morte di Michael Stewart, arrestato nel 1983 dalla polizia di New York mentre lasciava una sua tag nella stazione di First Avenue e poi morto in custodia, con lesioni da pestaggio, rottura dell’osso del collo e rimozione degli occhi per evitare prove in fase di autopsia di microemorragie dovute a soffocamento.

Ma la determinazione delle politiche autoritarie contro la semiotica popolare dello spazio urbano fu sancita l’anno precedente, con un articolo su The Atlantic dai due sociologi Kelling e Wilson, Broken Windows, la cosiddetta teoria delle finestre rotte, entrata anche nel senso comune per indicare l’effetto domino che porterebbe da una minima variazione dell’ambiente rispetto alla norma, verso una spirale di distruzione e criminalità.

TEORIA che, come fa notare Wolf Bukowski (La buona educazione degli oppressi, Alegre, 2019), per stessa ammissione degli autori è utile a eliminare dal discorso la ricerca delle cause sociali dei crimini, non perché queste non vi siano, ma perché questa «ricerca condurrebbe a una richiesta di welfare, cosa che invece “una società libera” non può permettersi». Insomma, un perfetto strumento di retorica per la repressione che dall’America è poi sbarcata in Europa dagli anni ‘90, entrato sempre di più in quel centro-sinistra della città sicura, del decoro contro la movida, della sicurezza di palazzo. Un palazzo a cui, a quanto pare, anche una piccola tag dà molto fastidio.

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