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I giorni del vino e della Terra

I giorni del vino e della Terra

Intervista Jonathan Nossiter parla del suo libro "Insurrezione culturale" per una nuova ecologia

Pubblicato quasi 8 anni faEdizione del 12 novembre 2016

In vino veritas, e la verità è che il 99% di quello che viene oggi chiamato vino dovrebbe più correttamente definirsi bevanda alcolica a base di uva, con buona pace delle denominazioni di origine controllata. Il valore nutritivo di una mela degli anni ’50 è pari a 100 mele dei giorni nostri. La cosiddetta rivoluzione verde, è nera, l’introduzione massiccia della chimica nell’agricoltura non ha messo fine alla fame nel mondo, sta avvelenando il pianeta ed è per il 25% circa responsabile del riscaldamento globale. Per la prima volta da millenni, è in gioco la sopravvivenza stessa del genere umano. A fronte di questa cupa realtà, mentre Bayern e Monsanto celebrano le loro nozze chimiche, e nubi di pesticidi e altre schifezze si addensano all’orizzonte, sempre più impellente si fa l’esigenza di una Insurrezione culturale.
É questo il tema e il titolo del libro di Jonathan Nossiter e Olivier Beuvelet, uscito l’anno scorso in Francia e portato ora in Italia da DeriveApprodi (pag. 238, 16 euro). Nel definire i lineamenti dell’auspicata insurrezione culturale, Nossiter e Beuvelet non si perdono in elucubrazioni astratte ma terra terra si rifanno all’esperienza dei vignaioli naturali, un movimento di giovani e vecchi contadini che rifiutando pesticidi, erbicidi, lieviti sintetici e via discorrendo, sono tornati a conoscere, a rispettare e a curare la Terra, presupposto indispensabile per iniziare a costruire un’alternativa concreta al neoliberismo. Il libro esolora in parallelo il mondo della vigna e quello del cinema, anch’esso vittima della monocultura, del pensiero unico che lo sta uccidendo. Le ultime pagine ospitano un utile indice di tutti i vignaioli e cineasti citati.
Jonathan Nossiter, cineasta, è autore di 7 lungometraggi tra cui Mondovino, Sunday, Rio Sex Comedy, Signs & Wonders e Resistenza naturale. In Italia è stato pubblicato anche il suo saggio su gusto e potere Le vie del vino (2010).
Di sé stesso, incontrato nella sua casa romana, dice…
Sono nato a Washington, da genitori statunitensi, siamo andati a Parigi quando avevo 2 anni, mio padre era giornalista corrispondente per il Washington Post, sono cresciuto in Francia, in Italia, in Grecia. Parigi è sempre stata la città di riferimento, ma ho vissuto molto a Londra, sono diventato anche cittadino brasiliano, i miei tre figli, due gemelle di 11 anni e un ragazzo di 10, sono nati a Rio. Ora sono 5 anni che sto a Roma. Dopo aver girato in Brasile Rio Sex Comedy volevo tornare in Europa, anche la loro mamma voleva che i bambini crescessero in Europa e la scelta tra Francia e Italia, con 3 figli, non è stata difficile. Qui crescono in un ambiente… Trastevere, vanno in una scuola pubblica democratica con bambini di tutte le razze e di tutti i livelli sociali e economici, a giocare in piazza a San Cosimato ci vanno da soli, qui è ancora un paese… a Parigi sarebbe impossibile.
Per promuovere il tuo libro in Italia non hai scelto i soliti posti, Feltrinelli, Mondadori etc…
Non mi interessa, lo farei solo se ci fosse un motivo preciso. L’ho presentato pochi giorni fa a Fornovo, a 20 minuti da Parma, dove si è tenuta la 15esima Fiera dei vini naturali, c’erano 150 vignaioli naturali. Il libro in Italia è uscito a giugno ma ho iniziato a presentarlo in autunno, al Sana di Bologna (Salone internazionale del biologico e del naturale), con la Cineteca e Alce Nero, la più grande ditta di prodotti autenticamente biologici, una struttura che dà da vivere a tante persone con un senso di comunità, un obiettivo comune, ma rispettando le individualità di ciascuno. La Cineteca di Bologna per me è senz’altro l’istituzione cinematografica più importante d’Italia.
A fine settembre sono stato a Terra Madre, a Slow Food, evento che mi convince poco, troppo omologato, non pensavo di andarci ma poi Lucio Cavazzoni, il direttore di Alce Nero mi ha proposto di presentare il libro a Torino con don Ciotti, che ha la sua comunità e un centro culturale dove c’è la pizzeria Berberè, e due direttori di cooperative legate ad Alce Nero. Due persone eccezionali, uno del Costa Rica che si è fatto qualche anno di carcere durante la dittatura perché ha organizzato 12 mila produttori biologici – ne ha convertiti un sacco al biologico per fare cacao e caffè. La sua cooperativa Sin Fronteras opera in Costa Rica, Venezuela e Brasile. L’altro è un peruviano che ha 18 mila piccoli produttori in tutto il Perù. Un terzo di questi prima coltivavano la coca, ora fanno zucchero, caffé e cacao. Per me era un sogno presentare il libro in quel contesto. Sono contento che in Italia il libro sia stato pubblicato da DeriveApprodi di Sergio Bianchi e Ilaria Bussoni, fanno scelte radicali, difendono una certa idea di cultura, ero invece un po’ turbato con l’edizione francese pubblicata da Stock, del gruppo Hachette, una casa editrice che fa parte di quel mondo che sto criticando.
Nel libro parli della trasformazione avvenuta nel tempo della parola cultura…
Fino alla fine del 1600 voleva dire solo lavorare la terra. Al tempo di Leonardo e Michelangelo non si parlava di cultura nel senso attuale, come qualcosa di immateriale. C’era un legame profondo tra qualsiasi atto detto oggi culturale, pittura, poesia, filosofia, e la terra. Era inconcepibile separarli. La separazione radicale nel nostro rapporto con la natura è avvenuta alla fine del ‘700 con Lumiere e con la rivoluzione industriale dell’800, che ci ha portato a pensare che potevamo dominare la natura.
Lo stato dell’agricoltura riflette oggi quello della cultura..
Sì assolutamente, siamo in presenza di una omologazione terribile, un controllo oligopolistico totale, come se Monsanto e Bayer – ormai la stessa ditta – e Singenta e Novartis, i loro nuovi amici cinesi, controllassero tutto il cibo che possiamo mangiare. La verità è che controllano probabilmente l’80% del cibo mangiato nel mondo, da chi non è contadino. La cultura urbana è catastrofica e ne siamo responsabili anche noi attori culturali, mancanza di coraggio, collaborazione con i meccanismi di potere solo per poter ancora mangiare le tre briciole che rimangono sul tavolo. Io a 15 anni ho cominciato a lavorare nei ristoranti di Parigi, a 20 anni ho fatto il diploma di sommellier, ho preparato carte dei vini per ristoranti in Francia, Inghilterra, Stati Uniti, Brasile e ho quindi avuto la fortuna di avere un contatto con i vignaioli. Attraverso i vignaioli arrivi per forza a conoscere contadini che coltivano il grano, altri che fanno l’orto, pastori. I veri vignaioli vivono in un ecosistema, non sto parlando di metà della gente che ho ritrattato in Mondovino, proprietari neoliberali che utilizzano l’azienda del vino come i Medici compravano quadri.
Scrivi che la maggior parte dei vini in commercio dovrebbero essere chiamati bevande alcoliche a base di uva…
Purtroppo è così, non ho paura di dirlo, è una opinione personale ma credo che sia vero. Quando facevo Mondovino 15 anni fa c’erano già vignaioli che facevano vino naturale, come Stefano Belotti in Piemonte, che fin dagli anni ’70 faceva vino biodinamico naturale, ma erano eccezioni, erano pochi, come per il vero giornalismo o il cinema d’autore oggi. All’epoca pensavo non ci fosse speranza, che l’omologazione neoliberale avrebbe distrutto tutto, invece c’è stata questa risposta, questa insurrezione portata avanti da tanti vignaioli diversi. Il 99,99% dei vini venduti nel mondo, compresi i vini più cari e quasi tutti – ma non tutti – i Barolo, i Chianti, Sassicaia etc. non è vino. Nel senso che se il vino ha 8 mila anni di storia, per 7.950 anni c’è stato solo vino naturale. Quei vini famosi che duravano per tre secoli, i più grandi vini dei castelli di Bordeaux, erano vino naturale, il che vuol dire che non solo era pulito il campo, ma in cantina non si utilizzavano lieviti selezionati in laboratorio, e non si filtrava fino alla morte.
Perché ora si usano lieviti di laboratorio? 
Tutti i suoli erano devastati dopo la seconda guerra mondiale perchè dagli anni ’60 in poi, anche prima in alcune regioni, hanno riempito i campi di pesticidi, erbicidi, fertilizzanti chimici… e hanno distrutto i suoli. Così si distrugge la capacità delle radici di penetrare nel suolo da cui attingono i sali minerali che sono poi trasformati in sapore. Sono gli aromi del vino, quando il suolo è morto le radici non penetrano, dunque non ci sono più sali minerali, non ci sono più aromi e questo vuol dire che non c’è più sapore. In un campo sano le radici possono scendere fino a 50 metri, in un suolo malato a non più di 2 metri. E allora che fanno, vanno in laboratorio e acquistano lieviti selezionati. Questa è follia, invece di andare alla radice del problema si raddoppia la malattia. Mettere lieviti selezionati è una cosa da Frankenstein. La maggioranza dei lieviti selezionati viene dalla Danimarca, un paese che non produce vino. Il 99,99% dei vini oggi sono fatti con lieviti selezionati. Voglio il lievito con aroma di banana, fragola, e il pane della nonna… è una cosa da pazzi, sono vini Frankenstein, e questo vale per l’Italia, la Francia, la Spagna, per tutti i paesi del mondo.
Il vino è solo la punta di un iceberg…
Dopo la prima e la seconda guerra mondiale sono riusciti a costruire molecole di sintesi per fare munizioni, e dopo la guerra per continuare a fare soldi hanno trasformato molte di queste molecole, ma spesso sono lo stesso prodotto, come il Zyklon B usato ad Auschwitz, per fare pesticidi. La loro diffusione massiccia è iniziata dopo la seconda guerra mondiale, anche col Piano Marshall, e l’agricultura del mondo è stata massacrata. È stato venduto come un mezzo per aumentare la produzione e sfamare il mondo. All’inizio le rese sono aumentate, sono triplicate, però i suoli sono stati devastati, e dopo 10, 20 o 30 anni, pian piano le rese sono calate e in certe zone, come in Sicilia, per il grano hanno raggiunto oggi lo stesso livello a cui erano alla fine dell’800. Ma c’è qualcosa di molto peggio, con il pane fatto con farina industriale, con grano chimico, ci sono molte più probabilità di beccarsi un cancro. Con Olivier Beuvelet, professore alla Sorbona, abbiamo fatto delle ricerche e abbiamo concluso che la qualità nutritiva di quello che mangiamo oggi è scandalosa. Per arrivare al valore nutritivo di una mela standard, normale, del 1950, oggi bisogna mangiare 100 mele. Per cui anche l’argomento che il biologico è più caro è assurdo. È una truffa, e vale per tutto quello che mangiamo.
Il vino è una metafora, mi piace bere ma il vino è interessante solo in quanto è espressione di un gesto agriculturale, e dico culturale e non colturale, ma anche tutti e due. L’unico problema vero nel mondo oggi è il riscaldamento globale, causato per il 25% circa dall’agroindustria, dall’allevamento delle vacche, dal modo industriale di coltivare la terra, di distruggerla con la chimica. Non sono questioni banali legate solo al vino, siamo al centro dell’unica questione attuale – sopravviverà o no la specie umana? – e chi non si confronta con questa domanda vive fuori dal mondo. Oggi o siamo complici di un sistema che sta portando alla fine della specie umana, oppure cerchiamo di ragionare, di resistere negli atti quotidiani e ognuno nel suo lavoro.
Quello che trovo molto bello nella scelta radicale dei vignaioli naturali è che prima di tanti hanno capito che si comincia da sé stessi. E così si trovano vecchi contadini, alcuni analfabeti, altri che hanno letto Verlaine e Baudelaire, ex giornalisti o ex cineasti che hanno abbandonato mestieri che stanno morendo per portare il loro appetito culturale a coltivare la terra.
Negli ultimi 15 anni, soprattutto in Italia e in Francia, è esploso questo movimento più che anarchico assolutamente individuale, però collettivo nel riconoscimento che da soli siamo fritti, e la cosa più affascinante è che ognuno ci è arrivato per la sua strada. Alcuni sono biodinamici, altri se ne fregano di Steiner, altri sono contadini che osservando la natura, e la distruzione del tessuto sociale e della salute dei loro vicini, hanno capito che l’unica salvezza è fare un gesto di salute totale, salute della terra, della vigna, rifiutando le chimere della tecnologia chimica. Questo non vuol dire essere reazionari, ma essere radicali e progressisti nello spirito di Cassavetes, di Pasolini e di Picasso.
Come é nato «Rio Sex Comedy»?
Dopo aver frequentato per tanti anni questi vignaioli ribelli, una ribellione gioiosa, sana, generosa, ho proposto a Charlotte Rampling e ad altri amici attori di fare un film tutto nostro, dove sentirsi completamente liberi. Per qualche anno ci abbiamo ragionato su, insieme abbiamo cominciato a scrivere una sceneggiatura e alla fine é nato Rio Sex Comedy, stesso salario per tutti, tecnici compresi. È stata una esperienza meravigliosa ma difficile. Fra l’altro l’industria francese si é parecchio incazzata quando ha capito che i finanziamenti venivano da Canal Plus, Arte etc: «non puoi prenderti i nostri soldi e fare una cooperativa socialista». Charlotte Rampling è arrivata a Rio con una valigia di vestiti per il film che abbiamo scelti insieme dal suo armadio. Il primo giorno di lavoro vado nell’appartamento dove sta Charlotte, e dove sono nati i miei figli, e la trovo che sta stirando i vestiti per la giornata. Rio Sex Comedy è un film anarchico, pazzo, ci siamo divertiti un mondo e lei è una collaboratrice vera. Quel film deve molto alle esperienze vissute a contatto con i vignaioli naturali, la loro gioia nella libertà di non essere costretti a fare il biologico certificato da Bruxelles, sapendo che quelle regole sono state fatte con la complicità delle lobby dell’industria agrochimica.
Parli di lavaggio cerebro-gustativo del palato…
Formato come sommellier, per 25 anni ho bevuto vini morti, e non sapevo che erano morti, l’ho scoperto solo dopo il primo contatto con dei vini vivi, e lo stesso vale per il cibo. Siamo stati condizionati da un sistema che ha distrutto la nostra capacità di ragionare, di gustare, di sentire. Se hai visto solo e sempre film blockbuster, effetti speciali, e qualcuno ti presenta un film di Fellini, di Pasolini, di Bergman…la tua prima reazione sarebbe di noia, troppo strano, complicato, lento, tecnicamente primitivo…per apprezzarli è necessario uno sforzo, una insurrezione culturale. Il mondo del vino naturale ci dà speranza che si possa recuperare tutto il passato sano, vivo, che la cultura politica del mondo moderno cerca in tutti i modi di distruggere. Siamo più malleabili, manipolabili se non abbiamo un legame stretto col passato.
È interessante notare come da Tokyo a New York, da Londra a Roma, c’è tanta gente che ha scoperto il vino naturale. A Parigi è una esplosione di enoteche e ristoranti dove c’è solo vino naturale, sono pieni di giovani, ragazzi che non accetterebbero mai vini snob, Sassicaia, Barolo di Gaja, roba finta fatta per i ricchi. Sono giovani che non sono ricchi ma hanno un senso dell’autenticità, e quando sono davanti a un vino naturale si sentono bene. Il prezzo in genere è molto democratico.
Tra qualche giorno vado a trovare Camillo Donati a Parma, figlio di partigiano, contadino figlio di contadino. Fa dei Lambruschi e delle Malvasie spumanti per 7-8-9 euro, vini di una bellezza incredibile. Quando l’ho conosciuto diversi anni fa gli ho chiesto – dopo aver bevuto i suoi vini a Parigi: «sei diventato quasi una star, potresti alzare i prezzi». E lui: «Jonathan, mia figlia va a scuola, noi mangiamo roba semplice ma buona, viviamo con dignità, di cos’altro ho bisogno?». Qui a 40 metri c’è un giovane di Benevento, Antonio Marino, che ha aperto Le Vigneron, una enoteca che ha solo vino naturale. È un divulgatore della cultura di campagna per tutti quelli che vivono qui in zona. L’altro giorno ho bevuto da lui un aglianico beneventano… è stato come vedere Salò per la prima volta, sei spaventato e dopo abbagliato da tanta bellezza e coraggio.**

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