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I fratelli De Serio nelle stanze parlanti

I fratelli De Serio nelle stanze parlantiUn fotogramma di «Stanze», video-installazione del 2010 di Gianluca e Massimiliano De Serio

Intervista I due registi presentano il libro che chiude un progetto artistico decennale

Pubblicato circa 5 anni faEdizione del 19 ottobre 2019

Farankaboolo. Così scriverebbe la parola «francobollo» Ahmed, rifugiato politico somalo, tra i protagonisti del composito lavoro artistico dei gemelli Gianluca e Massimiliano De Serio: Stanze, presentato nella sua ultima parte a Palermo, nell’ambito del Festival delle letterature migranti. La relazione ambigua tra oralità e scrittura, insieme a quella tra silenzio e parola, è uno dei temi che i De Serio hanno esplorato per arrivare a progettare la costruzione di un «ponte» tra Somalia e Italia. Tutto è nato da una suggestiva coincidenza: nel 2010, nell’ex caserma La Marmora di via Asti, sono stati tenuti – in condizioni precarie, dato lo stato di abbandono della struttura – alcuni rifugiati, la maggior parte di nazionalità somala.

La caserma di via Asti non è un posto come un altro, sono stati alloggiati lì i battaglioni dell’esercito coloniale di fine Ottocento, e lì la polizia fascista ha incarcerato e torturato decine di partigiani e oppositori del regime, negli anni quaranta. È questo luogo, così significativo per la storia italiana, ad avere dato origine a Stanze, progetto nato come video-installazione nel 2010 – quando i De Serio riuscirono a introdursi nella caserma per girare alcune scene con i rifugiati – e proseguito con uno «studio» per l’omonimo spettacolo teatrale, che si conclude oggi, quando verrà presentato il libro che fa da «catalogo» e testimonianza al lavoro svolto e ancora in fieri.

Al Festival delle letterature migranti, che ormai da anni offre un eterogeneo programma di incontri, Gianluca De Serio ha presentato il frutto di questo lungo percorso, mentre il fratello è rimasto a Torino per occuparsi del montaggio del prossimo film.

Il vostro lavoro stabilisce un nesso esplicito tra fascismo e gestione dei flussi migratori contemporanei, e lo fa a partire da un luogo fisico.
A volte i luoghi, soprattutto gli spazi architettonici, raccontano autonomamente le loro storie. Sta a noi cogliere il racconto che le nostre città ci offrono. Mettere queste «sculture umane», i rifugiati, davanti all’obiettivo e farle interagire con gli spazi dell’ex caserma è stato innanzitutto un modo di mettersi in ascolto rispetto alle cose che quello spazio, attraverso di loro, aveva da trasmettere a noi; è importante, a volte, che sia qualcun altro, magari venuto da lontano, a raccontare la nostra storia. Può essere più efficace che leggerla su un libro o su un giornale. Così noi abbiamo voluto che fossero i rifugiati a dirci qualcosa del nostro passato, e dopo un lungo lavoro negli archivi di Torino, abbiamo chiesto loro di leggere alcuni estratti degli atti processuali del ’46, quando le testimonianze inchiodarono i gerarchi fascisti alle proprie responsabilità.

Il vostro è un film-installazione, con i migranti inquadrati e illuminati come statue all’interno della squallida caserma. Poi lo studio e lo spettacolo teatrale, con le letture delle testimonianze del ’46, ma anche le poesie in italiano e in somalo, che sul libro occupano uno spazio importante. Come mai avete scelto di affidarvi a diversi linguaggi?
Si tratta di un’opera che si è evoluta nel tempo. Il video nasce nell’anno in cui i ragazzi erano stati «ospitati» in caserma, mentre lo spettacolo è stato allestito cinque anni fa. Chiudere con il libro ci sembrava che potesse restituire al meglio la prospettiva che abbiamo adottato per Stanze: quella della mescolanza, anche dei linguaggi. Il libro è la parte in cui si vede di più la mano dell’attivista e poetessa italo-somala Suad Omar, che ha affiancato i ragazzi per ricreare il senso di una «catena poetica», come da antica tradizione somala.

Prima ancora di decidere di introdurre questo frammento disperso della cultura somala in «Stanze», come siete arrivati a scovarlo?
Abbiamo studiato e ascoltato chi conosceva quella cultura. In Somalia la lingua scritta è un’invenzione molto recente, introdotta dalla dittatura militare negli anni settanta. Fino ad allora la società si era fondata su una tradizione orale legata soprattutto alla poesia. Le diatribe, le disquisizioni che avevano un valore pubblico venivano portate avanti con componimenti orali che andavano a formare «catene poetiche». E un pezzo si poteva aggiungere alla catena e proseguirla soltanto se avesse rispettato rigorosi canoni formali ed estetici. Questa parte dell’antica cultura somala, totalmente sconosciuta in Occidente, ci sembrava importante per due ragioni: per il fatto che pone l’estetica come valore essenziale per la validità della catena; e per il fatto che mette al centro della civiltà la poesia. Un esempio molto raro e affascinante.

«Stanze»: un titolo che si porta dietro una scia di significati ambigui.
Il titolo ha una valenza duplice: innanzitutto le «stanze poetiche» che abbiamo visitato nel cambiare stile e forma artistica nelle varie fasi del progetto e anche all’interno di ogni singola fase artistica: nel video, ad esempio, ci sono diversi utilizzi del mezzo tecnico nelle riprese, sia per quanto riguarda le inquadrature sia per quanto riguarda la luce, e questo offre a ciascuna«stanza» la possibilità di esprimere il proprio significato in modo originale. Poi «stanze» come questione politica: uno dei ragazzi ad un certo punto dice: «L’Italia non mi ha nemmeno dato una stanza». Ed è vero. Stanze, allora, come spazi a disposizione delle persone.

Il progetto ha coinvolto decine di ragazzi. Siete ancora in contatto con loro?
I rifugiati che abbiamo coinvolto nel progetto non vivono più in Italia, sono tutti sparsi in Europa, soprattutto al nord a parte uno, Abdullahi Ahmed, che è diventato un punto di riferimento per chi viene da lontano: fa politica attiva, collabora con un’associazione che sostiene e aiuta nell’integrazione i rifugiati, e ha fondato un festival europeo dedicato alla solidarietà tra paesi del Mediterraneo. Il suo grande esempio ci ha insegnato molto, e pensiamo che il nostro sia stato un incontro importante nell’apprendere e arricchirsi a vicenda. Il Comune di Settimo Torinese, in anticipo sulla «concessione» del passaporto italiano, che Abdullahi avrebbe dovuto ottenere già da anni, gli ha accordato la cittadinanza onoraria. Con alcuni ci sentiamo, ma ognuno ha preso la sua strada. È bello pensare al nostro lavoro anche come a una testimonianza di quello che è passato per la nostra città e che oggi molti hanno già dimenticato. Il dibattito sulla ex caserma è già andato avanti: sul suo futuro riutilizzo ci sono visioni opposte ed è bene che in questa discussione ci si ricordi di cosa ha significato quel luogo per Torino.

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