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I film mai fatti sul terrorismo

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Anticipazione Dal libro "Immagini di piombo" che racconta come sono stati rappresentati il terrorismo, la lotta armata e la violenza politica al cinema un saggio che indaga sui film italiani sceneggiati, proposti, spesso accettati e mai realizzati

Pubblicato più di 10 anni faEdizione del 11 gennaio 2014

La cinematografia sugli anni di piombo è composta da un corpus di film che sono stati studiati e discussi. Un rapporto, quello tra cinema e violenza politica, che è stato in Italia complicato, difficoltoso, foriero di disagio. Oltre a un certo numero di film finiti, c’è un sommerso di progetti, sceneggiature, soggetti, di film mai realizzati, che invece non sono stati per ora quasi per niente studiati e analizzati. Si tratta probabilmente di un ingente numero di potenziali film.

(…)

“Alibi imperfetto” (titolo alternativo: Indagare è bello) è un soggetto scritto nel 1977 da Ugo Pirro, sceneggiatore anche di “Ogro” (Gillo Pontecorvo, 1979), uno dei film sugli anni di piombo che ha avuto più difficoltà in fase di realizzazione. Il soggetto «fu dato in lettura al produttore Clementelli, al produttore Cecchi Gori, al regista Mario Monicelli che lo propose al produttore Luigi De Laurentiis, il quale dopo un primo interessamento abbandonò il progetto. Dopo di che, constate le difficoltà, ho preferito non fare altrettanti tentativi nella convinzione che sarebbero stati del tutto inutili (…) Il terrorismo è stato per lunghi anni un tema tabù del cinema, il solo proporlo rischiava di procurare un’accusa di convivenza ideale se non organizzativa con le Brigate Rosse” (Pirro 1984). Il testo è lungo cinquantasei pagine, presentandosi come una sorta di romanzo breve, e l’azione si svolge nel centro di Roma. Racconta di un investigatore privato, Armando Falchi, incaricato dal professore di sociologia dell’Università di Roma Eugenio Sales di indagare su di lui. L’investigatore, un ex poliziotto che insieme al suo assistente Giacomino è alle prese con storie di corna, cani scomparsi e affini, accetta la sfida di indagare su un individuo ed essere pagato dal medesimo. Nella stessa giornata – il soggetto è diviso nell’unità temporale di cinque giornate – l’onorevole Contini viene rapito e vengono uccisi due poliziotti che erano con lui. Ben presto Falchi comincia a sospettare che il professore sia coinvolto in quest’azione. Sales ha quindi assunto Falchi per capire quanto sia vulnerabile e contemporaneamente crearsi un alibi: l’investigatore, per quanto pieno di sospetti, non riesce infatti ad avere prove certe, e quindi tutti i posti visitati, le cose fatte, diventano potenziali alibi. L’unica prova che riesce a fornire, la macchina da scrivere con cui il gruppo avrebbe scritto un comunicato, non regge la verifica della scientifica. I terroristi non si dichiarano prigionieri politici, e Falchi si trasforma così contemporaneamente in testimone di accusa (perché li ha denunciati) e di difesa, perché ha seguito Sales e può fornirne un alibi. In diversi dialoghi viene esplicitato quello che pensa Falchi del terrorismo, specie da un punto di vista operativo-militare. Ad esempio si rimanda al clima di caccia alle streghe nei confronti dei militanti dell’estrema sinistra quando il detective parla con un cameriere e gli dice di non dire dove e come i terroristi potrebbero nascondere l’onorevole perché questo è già un motivo per essere sospettati (…) La sceneggiatura, per quanto ricostruisca una situazione potenzialmente realistica (e il rapimento Moro lo dimostra), non fa nomi, non racconta di personaggi realmente esistiti e non sembra in definitiva un’opera particolarmente «scomoda».

 

“Luce senz’ombra” è una sceneggiatura di 152 pagine portata a compimento da Pasquale Misuraca nel 1988, da soggetto originale di Eftimios e Pasquale Misuraca. Uno dei protagonisti porta proprio il nome di Eftimios, abita in campagna a nord di Roma, mentre il Giovane Infelice (il nome di un altro personaggio, ispirato ad un testo di Pasolini) va in chiesa dove una statua di Santa Teresa gli dice che è tempo di agire. Per Pasquale Misuraca “Luce senz’ombra” è da intendersi come una rappresentazione di una crisi che dura secondo Gramsci dagli inizi del Novecento. È il racconto di come all’interno di questa crisi ci siano due modi di viverla. Ci sono dei giovani che per disperazione uccidono e ci sono dei giovani che costruiscono un mondo nuovo». Il Giovane Infelice infatti con due compari (Klara e Carlo) rapisce una guardiana di Rebibbia con funzioni minori – si occupa dei pacchi, ma neppure di controllarne il contenuto, solo di farli. I giovani non hanno particolari accuse da fare e, quando lei spiega che lavora in carcere a causa di qualche malanno di salute, il Giovane Infelice risponde che «pure mia nonna ha cinquantacinque anni, più o meno sta nelle stesse condizioni tue, eppure non è andata a lavorare in carcere, a costo di farsi il culo!». Sembra un rapimento piuttosto estemporaneo, senza troppe motivazioni politiche, ma che si conclude con un omicidio. La vicenda raccontata è ispirata a quella di Germana Stefanini, rapita e uccisa a Roma da un «commando» delle Brigate Rosse-sezione potere proletario armato il 28 gennaio del 1983. L’interrogatorio riportato nella sceneggiatura riprende fedelmente quello pubblicato dall’Espresso il 29 maggio dello stesso anno (la sceneggiatura infatti è «una rielaborazione basata su una spietata descrizione della realtà») e tratto dalle bobine trovate dopo l’arresto del gruppo. La sceneggiatura finisce con Eftimios che sta morendo mentre capiamo che Achille, nell’Iliade, era entrato in guerra solo per non essere dimenticato, come un giovane terrorista che compie i suoi atti per narcisismo, dirigendo quasi a caso la morte, come nel caso della carceriera di Rebibbia. Tema cardine del film, seppur espresso in maniera metaforica, è la messa in scena del dubbio che attanagliò alcuni militanti dell’epoca, cioè se unirsi o meno alla lotta armata… A quanto racconta l’autore la sceneggiatura fu mandata «a Nanni Moretti e mi rispose Angelo Barbagallo (fino al 2007 socio di Nanni Moretti nella casa di produzione Sacher Film). Mi disse che c’erano Achille e Ettore, c’era la mitologia e quindi non gli interessava, gli faceva decidere di non occuparsene. Poi l’ho presentata chiedendo il finanziamento all’Istituto Luce perché aveva preso in distribuzione il mio film precedente, “Angelus Novus” (anche se mi aveva chiesto di censurarlo e io non l’ho fatto). Dopo diversi mesi, un anno forse, non avevo avuto nessun tipo di risposta. Poi credo di non aver più insistito perché non c’era nessuno che volesse produrlo»… Secondo Misuraca non vi sono problemi specifici neppure per quanto riguarda l’argomento, la messa in scena del terrorismo: “Non credo che il tema abbia influenzato in qualche modo. Questi stessi temi quando li trattano altri vanno bene, il problema è chi ha la licenza di trattare questi temi. I Maselli, i Bellocchio, gli Agosti, i Ferrara, ci sono tutta una serie di professionisti di sinistra che possono trattare questi temi. Non è tanto il tema, ma il chi lo tratta, come lo tratta. Io non credo che ci sia più una censura ideologica riguardo al contenuto, la censura è più profonda perché riguarda la forma».

“Rosso di Mària” è una sceneggiatura scritta da di Anna Rita Ciccone, Riccardo Tavani, Paolo Lapponi, Tonino Zangardi nel 1998 liberamente tratta dal romanzo di Teresa Zoni Zanetti dall’omonimo titolo (Zoni Zanetti 1997). Vi si racconta la storia di una giovane militante, Mària, e del collettivo dove milita. Ambientata nella zona dei laghi in Lombardia più che soltanto una storia sul terrorismo è una sorta di narrazione dell’educazione sentimentale e politica di un gruppo di militanti. Siamo nel 1974-75, in un collettivo come molti altri spuntano adesso molotov e qualche pistola, ci sono occupazioni, scontri con la polizia, concerti, perquisizioni e tutto il coté di quegli anni. Il binomio politica/militanza e amore/sesso è il fil rouge del film, come lo stesso Zangardi ha specificato in un dialogo con chi scrive. La sceneggiatura si apre con una fuga di Mària, Tata e Lupo verso la Svizzera, inseguiti dalla polizia e con un carico di soldi che verrano però gettati dal finestrino. È la stessa scena alla fine della sceneggiatura, quindi il film intero sarebbe stato girato in una sorta di lungo flashback. I tre stanno di fatto entrando in clandestinità: la protagonista si chiede: «era meglio quella libertà da fuggiaschi e da clandestini verso cui ci stavamo dirigendo?». Il resto del film parla del «prima», di cosa facevano prima i terroristi (o in questo caso persone che stanno entrando in clandestinità e teorizzano la violenza politica), tema effettivamente raro nel cinema italiano. C’è una forte volontà di raccontare quanto fosse variegato il movimento e di quanto oltre alla politica fossero anche interessati al divertimento. Per raggruppare soldi per aiutare un compagno cileno il gruppo organizza una rapina di finanziamento con conseguenze tragiche: la morte di uno dei militanti e la fuga con cui si apre e chiude il film. Vale la pena sottolineare però che la rapina non sembra un episodio, quanto un primo atto verso un uso più diffuso della violenza. Questo film avrebbe rappresentato il pre-terrorismo e soprattutto tracciato una linea tra movimento e chi ha poi compiuto atti violenti. Nonostante questo, il film fu bocciato dalla Commissione per la cinematografia del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, e secondo Zangardi si trattò più di una bocciatura politica che sulla qualità della sceneggiatura o della storia (ritenuta buona dalla stessa Commissione)…Due anni dopo quest’esperienza Zangardi tentò di fare un film tratto dal libro “Nell’anno della tigre – storia di Adriana Faranda” di Silvana Mazzocchi, ma anche questo progetto non andò in porto e si scontrò con veti e difficoltà da parte dei potenziali finanziatori.

 

“Il Permesso” è una sceneggiatura di Giuseppe De Santis (che avrebbe dovuto dirigerlo) e Franco Reggiani che racconta la storia di un gruppo di dieci detenute per reati connessi al terrorismo che beneficiano, grazie alla legge Gozzini, di un permesso temporaneo per assistere ad uno spettacolo teatrale. L’ispirazione è tratta da un evento reale, ma nella sceneggiatura non si citano i veri nomi… Nella premessa al soggetto gli autori spiegano il senso del loro film: «Il soggetto investe il grande e sempre attuale dibattito sui temi della giustizia, della pena, dei diritti umani. Esso pone interrogazioni inquietanti e dolorose, prima tra tutte quella tragica dei parenti delle vittime del terrorismo» (…)

 

Nella scena cardine del film le detenute costruiscono le maschere per lo spettacolo che andrà in scena nelle ore del permesso. Il regista dice loro che devono rappresentare «da dove venite, chi eravate, come siete arrivate sin qui, in carcere…». È uno stratagemma per ripercorrere il background delle detenute. Alcune di queste storie sono direttamente ispirate a quelle raccontate in “Rivista di storia contemporanea”, 1988 / 2, dedicato alle testimonianze e analisi di un ciclo di seminari svoltosi presso il carcere Le Nuove con un gruppo di ex terroriste, alcune delle quali prenderanno parte al permesso. C’è chi ricorda il nonno socialista, chi la rivolta nel collegio religioso, il periodo internazionalista, una storia dolorosa di aborto, un passato da psicologa che ha a che fare con la psicologia repressiva, una che ha vissuto in una comune. Una scena che sarebbe stata molto importante, perché il tema delle origini del terrorismo è praticamente assente nel cinema italiano (…)

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