I fantasmi shakesperiani di Alfonso Santagata
A teatro Insieme al suo gruppo Katsenmacher, l'artista mette in scena una curiosa radiografia «post mortem» dei più noti personaggi del Bardo
A teatro Insieme al suo gruppo Katsenmacher, l'artista mette in scena una curiosa radiografia «post mortem» dei più noti personaggi del Bardo
Ogni spettacolo di Alfonso Santagata e del suo gruppo Katzenmacher contiene, da molti anni, una sua intrinseca necessità, che lo rende unico, oltre che fascinoso e penetrante. Insediato da qualche anno in una residenza a Gavorrano, al centro delle colline metallifere grossetane, ha realizzato in questi anni percorsi sorprendenti e rivelatori. Basta pensare all’ultimo, nel settembre 2013, che squarciava il velo sulle miniere ormai dismesse, e soprattutto sulle esistenze (e le vite umane, un prezzo molto alto pagato negli anni) che quel luogo aveva condizionato e spremuto, in nome (o con l’alibi) del «progresso» modernizzatore.
Stavolta il discorso e i temi sono più «interni» al teatro, ma non per questo meno coinvolgenti. Con il titolo Esterni shakespeariani (in replica ora fino a lunedì 11 agosto a San Casciano in Val di Pesa) l’artista ci propone una carrellata/cavalcata attraverso i più noti personaggi di quello che è stato il più grande drammaturgo della storia; nomi e creature a tutti familiari, ma colti qui in una sorta di radiografia post mortem, così che ne escono e risaltano lati insospettati, attitudini prima sommerse, elementi di pietas (o di follia) rivelatori.
Usando per intero, tranne che il palcoscenico, il vasto spazio del Teatro delle Rocce (dove il comune di Gavorrano allestisce un vero festival agostano, di cui questo spettacolo ha segnato l’inaugurazione, prima di vari complessi pop jazz e rock, e Sergio Staino con Bobo, e Bobo Rondelli in trio), Santagata ha elaborato e dilatato un paesaggio cimiteriale: appezzamenti di fosse e pareti di loculi, grandi croci pendenti dalle rocce e edicole luttuose per folgoranti accensioni. I cui fuochi per nulla fatui sono i due bellissimi sonetti di Shakespeare, il 63 e il 74 della raccolta, che rispettivamente aprono e chiudono la serata, esergo ed epitaffio del racconto della vita e dell’amore che la infiamma, in cui ogni spettatore si può ritrovare.
Del resto il pubblico inizia la propria partecipazione salendo in gruppo sul sentiero che costeggia il fianco del monte, in una ascensione che è già un rito quasi propiziatorio, accingendosi all’ingresso nel regno dei personaggi morti, o che nella morte e nel suo business si sono riciclati e rinnovati. Calibano, invocando spesso la sua terribile madre, è divenuto padre-padrone del cimitero dell’isola della Tempesta alla morte di Prospero, ha sconfitto il buonismo di Ariel, ha preso per la manodopera cimiteriale un personaggio minore di qualche altra commedia, e gestisce con ferrea rigidità malavitosa quella lucrosa impresa. È lui che evoca Ofelia, già annegata e svuotata di sé, mentre Amleto è ormai prigioniero dei propri discorsi insensati, e soprattutto inutili agli umani comportamenti. Ma i personaggi che incontriamo in quell’orizzonte funerario scappano fuori, in apparente disordine, da molti diversi testi di Shakespeare.
C’è un Riccardo rimbambinito, preso e vinto nelle trame erotiche e di potere della regina Anna, rovesciando la credenza e il percorso della storia; c’è Lady Macbeth con quel ricorrente problema di nettarsi le mani dal sangue, ogni volta che vede il fantasma di una delle sue vittime; ci sono il moro e il bianco che nella lotta si equiparano e si scambiano reciprocamente, trasmettendosi nel contatto ravvicinato l’unguento di scena che provoca la «negritudine». Inquietano tutti, ancor più con la loro comica ingenuità, simulacro di un teatro che penetrando nel sangue di chi ne fa uso, assume nuovi sensi e significati, che forse prima non era facile cogliere.
Ma del resto, come dice il sonetto shakespeariano finale, l’amore brucia e consuma chi lo prova, ma nello stesso tempo lo fa vivere. In quella contraddizione, tra quei giganti del palcoscenico che qui si mostrano nel controluce più intimo, dà letteralmente un colpo al cuore la vedova che al cimitero va per ricordare il suo compagno, mentre la banda del paese le suona senza parole Bella ciao…
Ha ben disposto lo spazio la regia di Santagata (che in abito grigio da manager dà corpo anche all’arroganza di Calibano): per i suoi «fantasmi» shakespeariani ha disegnato e disseminato l’ampia distesa della collina di un enorme puzzle di cimiteri possibili, e ha facile gioco a insinuare nello spettatore il dubbio se possa essere più intensa e veritiera la vita, prima o dopo la morte. Di scena, naturalmente.
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