È nella sua natura di lingua che risorge dal basso (e metafora, direbbe il Godard ultimo di Adieu au Langage 3D), l’essere-politico dell’immagine cinematografica. L’innata capacità di percepire l’ampiezza della catastrofe abbattutasi sui già fragili anticorpi che dovrebbero definire umana una società, e soprattutto la consapevolezza che il collasso sia avvenuto inesorabile eppure camuffato (per esempio l’ipocrisia di nome democrazia), per cui è stato facile dimenticarsi che progresso è sinonimo di disastro (profetico insegnamento leopardiano).

Non è più tanto una questione di inclassificabilità o di mai visto (sebbene, o proprio perché, le immagini sembrino partecipare allegramente al cataclisma). Quanto della trasparenza inattesa e fuori assetto di un discorso che si pensava smarrito, il barlume di una lingua sempre più ridotta a sopravvivere sotto traccia. Magari un traffico di ombre, di doppi, di false piste, di riflessi opachi, di campi lunghissimi a lume di candela. Oppure un incastro di sogni spezzati, di orizzonti obliqui, di somiglianze incerte, di soggettive cieche. Qualcosa che, cogliendo l’ingorgo e l’affollamento d’anime, gli dia respiro e fiato.

Ecco allora che l’immagine abile a custodire questo mistero si occupa anzitutto di chi è più povero e dell’ombra che proietta ovunque anche se tragicamente non vista. È il caso di Gebo e l’ombra, ultima prova (finora) del cineasta oltremondano Manoel de Oliveira (e in uscita oggi nelle sale italiane con due anni di ritardo: il film era a Venezia 2012 ed è passato in tv su RaiTre per Fuori Orario).

Come se fosse immediatamente in contatto con l’origine smarrita, tratto dall’omonima opera di Raul Brandão del 1923 (secondo de Oliveira una sorta di anticipazione del Beckett di Aspettando Godot, dunque perfetta per «fare un film sui poveri») Gebo e l’ombra si rivolge fin dall’inizio ai fratelli Lumière. Movimenti notturni, nebbiosi, inavvertiti, una donna che guarda fuori dalla finestra, poi esce in strada e, dopo pochi passi, fa per rientrare, stavolta fissando lo sguardo verso l’interno della casa, mentre sul vetro e in lontananza, insieme a lei che si avvicina, si affollano i riflessi di una candela che fiocamente illumina l’interno e la silhouette di un’altra donna che è invece rimasta dentro: non importa dove sia la macchina da presa, essa è tutti questi sguardi e tutti questi lumi e contemporaneamente guarda altrove (ecco perché vederla d’improvviso è così stupefacente e spaventoso, come un treno che entra in stazione).

De Oliveira, facendo del mondo un vortice ininterrotto di sguardi tanto arrembanti quanto impersonali, lavora in profondità sull’incommensurabilità del punto di vista. E poiché questa abissalità è data da gesti semplici e diretti, per prima cosa rimette in gioco le sue stesse origini di cineasta. Non solo ovviamente Douro, faina fluvial, ma anche per esempio Aniki Bóbó, dove in sogno il bambino già vedeva il grande mago che lo riprendeva severo: «Il furto è peccato mortale!».

In Gebo e l’ombra il bambino, è ormai un ragazzo di nome João (Ricardo Trêpa) e non ha ascoltato l’avvertimento, da molti anni ha abbandonato la moglie Sophie (Leonor Silveira) per darsi alla professione di ladro (e forse è anche un assassino). Gebo (Michael Lonsdale), il padre, sospetta qualcosa ma non dice nulla, salvo portare a casa a sua moglie Doroteia (Claudia Cardinale) scarne notizie sulle gesta del figlio ottenute dagli incontri notturni con un fantomatico testimone. Gebo racconta, forse inventa, finchè un giorno, come un fantasma, João ricompare.
Il ritorno però non ha nulla di materiale. In questa famiglia di ombre in attesa (non solo la famiglia, ma anche il circolo dei vicini, composto da due magnifici e straordinari Luís Miguel Cintra e Jeanne Moreau, partecipa a questa danza di fiammelle genialmente fotografata da Renato Berta), ciò che davvero si materializza è uno spettro in più, malgrado poi sia un ladro e rubi una cassetta di denari costringendo il padre ad assumersi la colpa prolungando l’eterno doppio stato della povertà fatto di scelte morali e di sconfitte fatali.

Mentre, per quanto riguarda lo stato dell’immagine, contrariamente a quanto è stato detto, in Gebo e l’ombra non c’è nulla di teatrale. De Oliveira conosce benissimo il teatro e lo usa come caso particolare dell’immagine (mon cas), come scena che si apre su un doppio fondo dal quale emerge il fantasma stesso dell’immagine. Ha scritto: «Anche se filmiamo un avvenimento vero, la sua realtà, una volta proiettata sullo schermo, non è l’avvenimento, ma il fantasma della realtà passata». Ecco, Gebo e l’ombra è forse uno dei più grandi e lucidi film mai fatti sulla fisica della proiezione. Sull’intuizione che le linee invisibili che uniscono e dividono i corpi e la Storia, altro non sono che il combustibile di un’intelaiatura forse indicibile, dove lo spazio stesso divampa e sparisce in un sol colpo, e l’anima letteralmente si immagina, come spesso accade con quella cosa che ancora chiamiamo cinema.