Fu una lunga serata quella del 29 maggio 1985: il mondo sportivo aspettava con ansia la finale di Coppa dei Campioni, allo stadio Heysel di Bruxelles, dove si confrontavano le due squadre europee più forti dell’epoca, la Juventus e il Liverpool.

I quattrocento milioni di spettatori, che in tutto il mondo si erano sintonizzati sulla partita, appresero degli assalti degli hooligan, gli ultrà inglesi, agli spettatori del settore Z, che portarono a 39 vittime, schiacciate, calpestate.

«Giocheremo per voi»: fu il messaggio dall’altoparlante del capitano bianconero Gaetano Scirea: la finale fu disputata ed ebbe una funzione anestetizzante per tifosi e giocatori juventini, che a fine partita esultarono per la vittoria.

A distanza di 37 anni da quei fatti è stata realizzata la miniserie documentaria The Heysel Tragedy di Jean-Philippe Leclaire e Jan Verheyen con Eddy Pizzardini, prodotta da Scope Pictures. La serie, trasmessa dalla tv belga, è stata presentata alla Festa del Cinema di Roma, e poi all’IDFA di Amsterdam e al Red Sea Festival di Gedda.

In questa occasione abbiamo incontrato l’autore Jean-Philippe Leclaire, giornalista sportivo francese di L’Équipe, che segue da tempo i fatti dell’Heysel. Sul suo libro Le Heysel. Une tragédie européenne, uscito in Italia come Heysel – La tragedia che la Juventus ha cercato di dimenticare, si basa il documentario.

Molti giovani probabilmente non sanno nulla dell’Heysel. Avete realizzato la serie proprio per non dimenticare?

L’hooliganismo è tornato in diversi paesi, alcuni di quei meccanismi si ripropongono. Nella finale di Champions League a Parigi, i tifosi del Liverpool sono stati le vittime stavolta. Ma l’atteggiamento dei politici francesi, la negazione totale, gli errori nella sorveglianza, ci riportano ai tanti errori fatti a Bruxelles 37 anni fa.

Si può ancora imparare qualcosa. La cosa più importante per noi, pur parlando delle circostanze, è stata raccontare le storie umane, i destini. Di queste persone da Torino, Arezzo, Reggio, che andarono a vedere una partita di calcio con il loro padre o figlio, e non sono mai tornate. E quelli che sono sopravvissuti non sono più quelli che erano fino a prima di quel giorno.

È la stessa cosa per i tifosi inglesi, anche quelli che poi sono stati condannati al processo. Solo 40 minuti e le loro vite sono cambiate per sempre.

Nel documentario c’è sempre un’alternanza dei punti di vista, italiani, inglesi e belgi. Perché era importante questa pluralità?

Ci sono ottimi documentari e ottimi libri in merito, ma sempre da un’ottica. In Italia sono dalla parte delle vittime, in Inghilterra tendono a dare la colpa ai belgi, in Belgio agli inglesi. Noi come francesi potevamo essere neutrali e studiare la storia da tutte le prospettive. Ovviamente nessuno ha delle buone ragioni per uccidere, ma anche i tifosi inglesi esprimono le loro ragioni, che possiamo considerare stupide. Dopo 37 anni, ripetono ciò che avevano sostenuto al processo.

Quello che rende tutto molto simbolico è che successe a Bruxelles, la capitale d’Europa. Non avrebbe dovuto verificarsi eppure è stato un disastro per tanti motivi, la polizia, i tifosi, la Uefa.

Una cosa molto toccante è l’incontro tra il tifoso inglese Terry Wilson e la famiglia Lorentini di Arezzo che, nella tragedia, perse Roberto, medico, travolto mentre cercava di soccorrere dei feriti. Come è nato quell’incontro?

È successo dopo il libro. Intervistai Terry a Liverpool nel 2004, lui si sentiva in colpa per non sentirsi abbastanza in colpa. Voleva che gli raccontassi le storie delle famiglie italiane e mi chiese se credessi sarebbe stato possibile andare in Italia a incontrarli. Lo chiesi al signor Lorentini che non sapeva come reagire, allora dissi a Terry di scrivergli una lettera.

Dopo averla letta il signor Lorentini acconsentì all’incontro. Ma ad Arezzo, nei primi 15 minuti dell’intervista, mi stavo maledicendo. Lorentini era ancora molto emozionato, ma alla fine si sentiva meglio. Gli disse di non essere pronto a perdonarlo ma che già il fatto di essere venuto lì fosse importante. Gli chiese di aiutarlo nella sua idea di organizzare un’amichevole tra le giovanili della Juventus e del Liverpool.

Tornai a Liverpool con Terry. Lui era in contatto con il parroco ufficiale della società, tramite cui incontrammo Rick Parry, il presidente del Liverpool. Così fu possibile organizzare l’evento e Terry ebbe un ruolo. Fu il suo modo di dire che gli dispiacesse, come continuava a ripetere durante l’intervista.

La serie comincia con l’intervista al portiere della Juventus Stefano Tacconi che fa le riflessioni più intelligenti. Altri giocatori non hanno saputo elaborare l’episodio?

Conosco bene Michel Platini, ho scritto due libri su di lui e l’ho intervistato tante volte. Credo si senta ancora in colpa non tanto per aver giocato ma per le sue reazioni dopo il goal e a fine partita.

Abbiamo intervistato 2 o 3 giocatori del Liverpool e 3 o 4 della Juventus: sono tutti quelli che hanno accettato di parlare. Lo avevamo chiesto a tutti, anche alle riserve. Alcuni hanno detto assolutamente di no. Ian Rush doveva fare l’intervista ma l’ha disdetta il giorno prima, alcuni hanno chiesto di essere pagati, il che è assurdo.

Anche quando ho scritto il libro, nel 2005, Phil Neal il capitano del Liverpool ha chiesto di essere pagato. Incredibile. Credo che per molti dei giocatori ci siano ancora alcuni fantasmi di Bruxelles, fantasmi dell’Heysel che li tormentano ancora oggi.

Come giudichi la telecronaca del giornalista italiano Bruno Pizzul?

Dal nostro punto di vista è stato bravissimo. I commentatori francesi hanno cambiato atteggiamento. Prima erano disperati e dicevano che fosse inaudito giocare con quell’orribile tragedia ma, durante la partita, si comportavano come se non fosse successo niente. Pizzul annunciò che avrebbe commentato la partita in un tono neutrale e lo mantenne, anche dopo il goal di Platini. Invece in quel momento i francesi erano esaltati. Fu molto coraggioso.