I fantasmi della rivoluzione secondo Tariq Teguia
Intervista Incontro con il regista algerino che ha presentato Zanj Revolution. «Un'opera dove parlo di lotte possibili, necessarie e molto spesso inevitabili»
Intervista Incontro con il regista algerino che ha presentato Zanj Revolution. «Un'opera dove parlo di lotte possibili, necessarie e molto spesso inevitabili»
Storia di rivoluzioni, di un amore impossibile, di incontri mancati e di cose che si avvicinano e allontanano. Zanj Revolution dell’algerino Tariq Teguia è arrivato a Milano, e non poteva che essere al Cinemacello dello spazio autogestito Macao (il tour prosegue stasera a Genova al Teatro Altrove, il 22 al cinema Massimo di Pescara, il 24 al cineporto di Bari per chiudere sabato 26 al Titanik di Roma). Cinema come arte capace di scavare nel passato lontano, per far riaffiorare energie presenti, di creare uno spazio nuovo fra il documentario e l’inchiesta storica che il regista ci ha raccontato nel corso di un incontro.
Dopo due film dedicati all’Algeria, con «Zanj Revolution» intraprendi un viaggio nel Mediterraneo politico. Che cosa ti ha spinto a uscire dai tuoi confini?
Nel mio primo film, Rome plutot que vous, raccontavo il paese in fiamme dei quartieri poveri mentre in Inland andavo nel cuore profondo dell’Algeria per riscrivere il suo spazio nel continente africano. In Zanj Revolution ho cercato di allargare la carta geografica, ma soprattutto quella algerina. Una delle prime questioni che mi sono posto è stata cosa vuol dire esser cittadini del mondo arabo ma anche, finalmente, cittadini d’Europa e del nord del Mediterraneo, partendo proprio dalla rivolta Zanj di dodici secoli fa.
Come hai scoperto questo importante episodio storico di ribellione in Iraq avvenuta nell’800?
Nel mondo arabo la rivolta Zanj, o rivoluzione (sono sinonimi nella lingua araba), è un avvenimento molto conosciuto che allo stesso tempo si cerca di non far emergere più di tanto. I cornisti arabi hanno smorzato il peso e l’importanza di quell’evento mentre per la sinistra araba quel momento è servito come modello di tutte le rivolte possibili. Oggi, visto il riflusso delle ideologie e delle rivoluzioni, comprese quelle arabe, lo spirito è ancora quello di un tempo. Il mio film dunque voleva parlare di lotte possibili, necessarie e inevitabili, delle cose che non si possono evitare. Volevo andare e tornare nel presente attraverso il passato, collocandomi in un tempo intermedio, in uno spazio di superfici e profondità, come nel film di Godard Ici et ailleurs.
A proposito del film di Godard, un frammento da «Ici e ailleurs» viene mostrato al pubblico in una galleria d’arte, come se la valenza politica del discorso godardiano fosse oramai ridotta a un puro oggetto «da museo»…
Non ci avevo pensato. La scelta di proiettare Godard è stata decisa all’ultimo minuto, una decisione intuitiva e non teorizzata. Ho voluto invece citare Le petit soldat nella scena, in bianco e nero, dove i miei due protagonisti cercano, ma non trovano, un accordo amoroso.
Durante il dibattito al Cinemacello hai detto che non aver girato sui luoghi della rivoluzioni è frutto di una scelta precisa. Perché?
Mentre giravo il film l’Egitto, la Tunisia e lo Yemen erano «in fiamme» e si stava muovendo qualcosa in Libano. Erano tante, forse troppe, e così abbiamo deciso di rimanere distanti, volevo essere inattuale per restare, paradossalmente, più vicino all’attualità. Mi ero posto il problema di filmare le rivoluzioni ma il rischio era troppo alto. E soprattutto i miei lavori non nascono con delle formule da applicare. Spesso sono frutto di sensazioni nate nel corso dei viaggi che precedono la scrittur. Faccio quello che ritengo necessario e ho sempre l’impressione di fare un film con tutto quello che mi capita fra le mani. Eravamo a Beirut durante la caduta di Mubarak, ho detto al fonico di registrare alcuni notiziari che si sentivano nelle radio dei taxi ma poi non le ho utilizzate. Non volevo ricollocare la vicenda, è importante che la rivolta arrivi come un eco, come prospettiva.
Per questo motivo lo spazio esterno, ma soprattutto le città, sono filmate come luoghi fantasmatici e opachi?
La questione centrale del film era come filmare i fantasmi, come materializzarli davanti allo schermo. Molte cose le ho riprese in forma di riflesso, non in termini di azione e per questo le cose sono viste attraversi i vetri, gli specchi, senza consistenza. Il problema grosso era come riprendere Beirut, città che amo, e New York perché non volevo cadere nei soliti cliché. Mi interessava mostrare le tracce, i residui, la polvere, come nella scena girata tra Brooklyn e il Queens, uno spazio di mezzo che mi sembrava come una rovina recente. In quella scena si affronta qualcosa di davvero importante «Cosa possiamo fare noi per opporci al mercato e alla mondializzazione?» e purtroppo c’è poco da fare: la politica degli americani è tristemente efficace, trasformano il mondo come vogliono. La resistenza, la lotta di fronte a loro si riduce, si disperde restando isolata o frammentata.
Proprio in questa scena vediamo recitare il regista Amos Poe. Come è stato coinvolto nel film?
Cercavo attori americani ma non ne conoscevo e comunque sarebbe stato un salasso economico metterli sotto contratto, così ho chiesto aiuto ad alcuni amici . Un amico che lavora a un festival di cinema a Tessalonicco mi ha messo in contatto con John Sayles ma ha detto di no perché doveva stare accanto ai genitori anziani, così ho coinvolto Amos Poe perché mi interessava un regista dell’underground newyorkese. Abbiamo girato in un giorno e mentre camminavamo per le strade gli domandavo «Dove sono i fantasmi di Ginsberg e di Keroac?» e Amos rispondeva «Sono lontani, è tutto finito».
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