Rubriche

I diritti non sono regole di vita

Verità nascoste La rubrica settimanale a cura di Sarantis Thanopulos

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 17 febbraio 2018

Un esponente di Casa Pound ha postato la foto di un giovane di colore in un treno e accusandolo – secondo la propria interessata versione dei fatti – di non avere pagato il biglietto, ha istigato una reazione razzista da parte degli utenti di Facebook. Anche se la versione da lui fornita fosse stata corretta, avrebbe comunque violato la legge. In realtà era falsa: il giovane denunciato aveva semplicemente sbagliato posto.

La violazione della privacy, la calunnia, l’istigazione al razzismo sono reati. Nel silenzio dello Stato, il fascista ha ricevuto 200.000 consensi.

Negli stessi giorni un costituzionalista ha scritto su un noto quotidiano che le «strutture profonde» dello Stato funzionano efficacemente anche in assenza di un governo: dunque dei politici se ne può fare a meno. Gli è sfuggito di mente che il vuoto della politica genera mostri.

Mostruoso, infatti, sarà il nostro futuro se l’assenza dello Stato democratico nella gestione dei fatti di Macerata si confermasse come suo atteggiamento «normale» nei confronti del fascismo che rialza la testa.

Alla latitanza della maggior parte dei politici corrisponde un errore di prospettiva della società civile sul piano dei diritti: la loro concezione come regole di vita favorisce un inconscio, e per questo più insidioso, rigetto da parte dei cittadini. Sarebbe miope non vedere nella xenofobia straripante un astio, per molti inconfessabile, nei confronti di ogni eccezione alla realtà normativa: l’omosessualità, la sessualità «queer», le «nuove famiglie». Imporre come parte della norma (una codificazione omologante della vita) ciò che essa esclude, comporta la sottomissione al suo potere significante. Si intensifica l’esclusione e si legittima anche.

Ci sono diritti che non competono alla legge: essa non può né permetterli, né proibirli. La legge non può permettere l’eterosessualità, l’omosessualità, la bisessualità, la sessualità «queer» e neanche le diverse forme di famiglie fondate o meno sui matrimoni eterosessuali. Perché non può impedirle. A meno che non si identifichi con le norme morali, come sempre tende a fare.

Chi delle discriminazioni che queste norme determinano crede sia giusto liberarsene fa un errore fatale se pensa di poter usare la forza impositiva della legge per capovolgere il funzionamento normativo e volgerlo a suo favore. La forza impositiva viene proprio dall’assetto discriminatorio (che ha ragioni psichiche e non politiche o civili).

Se si usa la legge per permettere ciò che non le compete, si apre di fatto la strada (è solo questione di tempo) perché sia usata per proibire ciò che non dovrebbe.

Essa – dissociandosi dalla giustizia – è pur sempre in grado di farlo.

I diritti veri (quelli che valgono per tutti e richiedono la parità dei soggetti desideranti negli scambi) emanano dal diritto al gusto della vita (il diritto di essere vivi come automi non ha senso), incluso il diritto di realizzarsi attraverso il lavoro (e non lavorare per essere sfruttati).

Il loro riconoscimento giuridico, tuttora insufficiente, non è una prescrizione legale. Implica la loro difesa rigorosa se vengono violati. Quando nella società civile prende forza una corrente di pensiero che pensa (sulle orme di Platone) di potere costruire una vita etica con le leggi, piuttosto che creare le premesse, non solo giuridiche, del suo sviluppo (promuovendo le condizioni che lo facilitano e rimuovendo quelle che lo inibiscono), si è in presenza di un’incertezza diffusa e non riconosciuta su ciò che è etico.

Si va alla ricerca inconscia di un’autorità ad esso esterna che possa definirlo in modo normativo, necessariamente discriminante.

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