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I designer del ballo

I designer del balloPalais Metrò, Montreal, 1967

Mostre Al museo Vitra, una ricognizione sulle discoteche e le loro architetture, dagli anni dei radical pipers a oggi

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 14 aprile 2018
Emanuele PiccardoWEIL AM RHEIN

Night Fever Designing Club Culture 1960-today è la mostra che il Vitra Design Museum di Weil am Rhein, vicino a Basilea, ospita in questi giorni negli spazi progettati da Frank O. Gehry, a cura di Jochen Eisenbrand, Catharine Rossi e Katarina Serulus (fino al 9 settembre).
Lo storico dell’arte Tommaso Trini parlava di «divertimentifici» quando negli anni sessanta gli architetti radicali realizzavano le discoteche note anche come Piper, dal nome del primo e più famoso inaugurato a Roma nel febbraio 1965 dall’avvocato Alberico Crocetta che chiamò Manlio Cavalli, Francesco e Giancarlo Capolei a disegnarne l’interno.
Doveva essere uno spazio per tutti – scrivono i progettisti – per una società che vi trovasse gli incentivi per una necessaria integrazione, svincolando le persone dai reciproci complessi del brutto e del bello, del ricco e del povero». Di fatto il Piper era l’unico spazio in cui i giovani potesssero esprimere la loro creatività e la voglia di divertirsi, conoscere le ragazze e ballare, senza la pesantezza del conflitto politico in atto in quegli anni.
Il conflitto rimane fuori dal Piper pure per i radicali fiorentini Superstudio e Archizoom nel primo «piper fiorentino» alla Casa del Popolo Affratellamento, distrutto dall’alluvione del 1966, e non ruba la scena nemmeno nei successivi Mach2, sempre dei Superstudio e Space Electronic dei 9999 fino al Bamba Issa degli Ufo, a Forte dei Marmi.

TUTTI IN FARMACIA
Il fenomeno radical pipers si sviluppa anche in Inghilterra, Germania, Stati uniti, declinando al suo interno linguaggi diversi. Anche se Pierre Restany, noto critico d’arte, opera una separazione tra lo stile yeah-yeah americano che in Europa diventa ye-ye, e fra Elvis Presley e Johnny Halliday. «Presley rappresentava il furore di vivere – scrive Restany – Halliday la corsa contro la noia e il vuoto».
Certamente, la nascita intorno al 1960 a Londra degli Archigram, gruppo di architetti dal chiaro sapore pop ha influenzato la generazione di giovani progettisti che – non solo in Italia – trovavano nella realizzazione delle discoteche l’unica possibilità per fare architettura. È qualcosa che accade anche a Montreal, con François Dallegret, quando nel 1964 dà vita a Le Drug. La sua struttura è una farmacia che contiene galleria, ristorante, biblioteca e discoteca; quest’ultima è immaginata come fosse una caverna con le stalattiti bianche a cui forse si è ispirato anche il regista Stanley Kubrick per il Korova Milk Bar di Arancia Meccanica (1971). Sempre a Montreal Dallegret, insieme a Joseph Baker, nel 1967, anno dell’Expo internazionale, progetta Palais Métro, che doveva essere realizzato in corrispondenza dell’importante stazione della metro Palais du Commerce. Pensato come una megastruttura in sintonia con la ricerca architettonica del tempo (basti vedere quelle dei Metabolisti giapponesi), con colori fluorescenti, grafiche pop e piattaforme per concerti e performance, non venne mai portato a termine. Nello stesso anno a New York è la volta del l’Electric Circus di Jerry Brandt, dove si alternano il murale psichedelico di Louis Delsarte e le proiezioni di Anthony Martin sulla tensostruttura progettata da Charles Forberg, che diventa luogo di incontro della controcultura e del mondo che gira intorno a Warhol.

SENSI ALLERTATI
Non tutte le disco vengono realizzate come per il Cyclia ideata da Jim Henson, l’inventore dei Muppets, che si ispira alle cupole geodetiche di Bucky Fuller immaginando «un teatro puro in una nuova forma rivoluzionaria: un perfetto ambiente di movimento, immagini e suono».
Il progetto di Henson evidenzia l’aspetto più significativo della discoteca, ovvero il coinvolgimento sensoriale, lo spaesamento dello spettatore che si fa performer nello spazio, dove la luce definisce i movimenti dei corpi che fluttuano al ritmo della musica. Il designer Kostantin Grcic, allestisce sapientemente la mostra e concepisce, fin dall’entrata, il rapporto tra spettatore e musica con la Smart mobile disco attrezzata con piattaforma aerea dove la dj mette musica anni settanta, mentre nell’interno del museo ricrea l’atmosfera buia della disco.
Qui sono presentati disegni originali, schizzi, manifesti, fotografie e film in 16mm delle performance. Grcic insieme al lighting designer Mathias Singer crea un’installazione luminosa psichedelica in cui, attraverso le cuffie, si ascoltano le varie fasi musicali pre-disco, disco, house e tecno, mentre alle pareti sono appese le cover dei dischi: dai Temptations agli Scic, da Giorgio Moroder a Grace Jones, dai Daftpunk ai Kraftwerk e Jeff Mills. Contemporaneamente, viene mostrata la tecnologia di luci e suoni nelle diverse evoluzioni tecnologiche.

RAGGI PSICHEDELICI
D’altronde, la luce è un elemento importantissimo nella discoteca, in relazione al ritmo della musica, ma soprattutto perché suggestiona e coinvolge il pubblico nel movimento dei corpi. Un movimento che ricorda poi la performance Paradise now del Living Theatre che a Firenze, nel 1969, viene chiamato per inaugurare lo Space Electronic. L’ambiente della discoteca diventa dunque il luogo prediletto per le azioni di artisti, come testimonia la famosa mostra sull’arte povera nel piper che Pietro Derossi progetta e dirige a Torino fin dal 1966.
La contaminazione tra musica e discoteca è anche evidente nel Schwabylon Yellow Submarine a Monaco (1971), che riprende il titolo del famoso album e film dei Beatles, assumendo la forma di un sottomarino con all’interno le vasche con squali e altri pesci, immergendo gli spettatori in una dimensione di vita subacquea. È però ancora New York la metropoli in cui la sperimentazione della discoteca si mostra più attiva: dopo l’Electric Circus, aprono i battenti lo Studio 54 nel 1977 e Area nel 1983.
Quest’ultima rappresenta un episodio interessante. Ogni sei settimane cambia il suo allestimento e la discoteca diventa set per le installazioni e la performing art, uno spazio alternativo alla galleria dove gli autori realizzano sia gli inviti per i party sia l’esposizione delle proprie opere come accade con Keith Haring e Jean Michel Basquiat.
E oggi? La discoteca tradizionale è in crisi. Così stilisti e artisti finiscono per progettare discoteche temporanee, come il Prada Double Club a Miami nel 2017 di Carsten Höller, testimonianza di un’avanguardia che si fa mercato dell’arte.

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