In agosto, sedici lavoratori agricoli, tutti migranti africani, sono morti in due incidenti stradali, nel foggiano. Facevano i braccianti, ingaggiati a giornata da un caporale per raccogliere pomodori, pagati in nero e senza diritti, stipati su furgoncini malandati, sfruttati in condizioni di servitù totale.Tragica cronaca attuale, per niente scalfita da disposizioni dell’autorità o disegni di legge, male atavico immodificabile. La vita di stenti di queste migliaia di diseredati impiegati nel Tavoliere di Puglia è stata portata alla luce, resa pubblica universalmente, cantata da una voce fondamentale della musica popolare italiana, Matteo Salvatore, venuto alla ribalta negli anni sessanta, il poeta analfabeta di Apricena, che spesso presentava i suoi brani dal vivo, come Padrone mio, Lu forestiero e Lu soprastante, raccontando le esperienze personali di quando andava a mietere il grano nelle campagne assolate, sotto lo sguardo vigile del sorvegliante.

DA ALCUNE SETTIMANE è stato pubblicato il libro Matteo Salvatore, l’ultimo cantastorie, edito da Aliberti e scritto dal giornalista Beppe Lopez, grande appassionato delle sue canzoni, autore di un’indagine accurata e rigorosa a metà tra la biografia e il giallo (tantissime domande restano senza risposta, a cominciare dalla lettera-confessione in apertura del volume) smontando le numerose mistificazioni esistenti, e spesso alimentate dallo stesso protagonista, sull’Omero del Gargano, a più di cinquanta anni dal folgorante disco Il lamento dei mendicanti, 1966 e a tredici dalla sua morte, avvenuta il 27 agosto 2005.

«Ciao Matteo, hai vissuto come un diavolo, ma quando cantavi, cantavi come un angelo» così recitava il manifesto funebre anonimo affisso per le strade del suo paese, una zona desolata della provincia di Foggia, dove la sua famiglia, soprannominata gli Zich Zich, viveva nell’indigenza assoluta. Il padre Lazzaro facchino e la mamma Maria Vincenza «camuffata da mutilata»per chiedere l’elemosina, la sorellina Maria di 4 anni morta per denutrizione, una fame assoluta per il bambino del tutto ignorante, a caccia di cibo e d’occasioni per strada. Il suo colpo di fortuna è l’incontro col maestro Vincenzo Pizzicoli, violinista cieco, ultra ottantenne, portatore di serenate, col quale rimarrà 14 anni, imparando a suonare la chitarra e le canzoni napoletane richieste dai fidanzati e tutto quel patrimonio di canzoni tradizionali della regione, «alcune delle quali antichissime, con la raccomandazione di eseguirle così come lui gli aveva insegnato, con un filo sottilissimo di voce».

SPOSATO una prima volta per soli dieci mesi (Antonietta prende una malattia devastante e muore), una seconda con Ida Signoriello che gli dà subito dei figli (nonostante vivessero in baracca arrangiandosi a fare il posteggiatore nelle trattorie) e sarà la moglie per tutta la vita, poi incontra Adriana Doriani, nome d’arte di Adriana Fascetti, una giovane di famiglia borghese con qualche esperienza radiofonica, corista con la speranza di diventare un giorno cantante, folgorata dalla bravura e dal carisma di Matteo. Adriana sarà la sua amante e guida nella vita, portandosi subito Ida e i figli a casa della mamma nella periferia romana. Gli insegna a scrivere le lettere e fare gli autografi, a migliorare le tecniche chitarristiche apprese da adolescente (mandandolo a una scuola di musica), a mettere a posto per iscritto le centinaia di canti, affidategli dal maestro cieco. Per quindici anni sarà un sodalizio felice e vincente, una comunione d’intenti totale, con tour negli Usa e in Canada, esibizioni televisive (compresa una partecipazione al Cantagiro nel 1969 dove sarà fischiato regolarmente da 20-30mila persone proponendo Lu sovrastante nel girone folk fino a quando una sera deciderà di travestirsi da capellone, portando al parossismo la platea), serate al Folkstudio e nelle piazze paesane, una certa ricchezza, riconoscimenti della critica e degli intellettuali, da Calvino a Pasolini, e dei colleghi da Otello Profazio a Giovanna Marini «mi affascinò subito per la sua assoluta inconsapevolezza, a fine ‘65. Era un naïf. Ma poi era inconsapevole anche della bellezza dei pezzi che cantava. Cioè lui sapeva che erano belli, però ne cantava anche di pezzetti privi di valore, da cantastorie di mercato, non da cantastorie serio. Invece lui era un cantastorie serio, un profeta».
La sua avidità, la diffidenza, la scaltrezza lo portano a modificare le sue prime dichiarazioni, rivendicando un ruolo da cantautore, da inventore creativo dei suoi pezzi in quella inguaribile fame di successo e di riconoscimenti pubblici tanto da ingannare la Siae (cambiando i titoli nel borderò delle dichiarazioni) e le stesse case discografiche, giungendo a stampare e vendere in proprio i suoi dischi e le cassette, già sotto contratto per altri marchi. Tuttavia la riappropriazione di quei canti, arcaici capolavori d’espressione ed esecuzione, li ha fatti conoscere universalmente grazie alla sua maestria vocale e strumentale, uno stile assolutamente unico. «È un poeta naturale, verace, capace di far poesia, senza sapere di poesia» dice Maria Moramarco.

ALL’APICE della carriera, nel 1973, dopo il fortunato cofanetto Le quattro stagioni del Gargano, esplode la crisi della coppia per l’ossessiva gelosia dell’artista, con Adriana perseguitata e sottomessa, costretta a scrivere missive deliranti e a abbandonare ogni pretesa sul vasto repertorio (nella raccolta firmavano insieme come autori 23 delle 56 esecuzioni), cerca vanamente rifugio dalle amiche e teme per la sua vita. Prima di un concerto a San Marino, il 26 agosto, Matteo la strangola nella vasca da bagno, raccontando di una lite sfociata in tragedia, di una «disgrazia» casuale, con manipolazioni della scena del delitto e simulando stati di alterazione emotiva e fisica. Al processo si discuterà della sua «semincapacità di volere e della provocazione particolarmente grave» tralasciando i chiari segni di violenza sul corpo della donna e le testimonianze di amici e colleghi su scenate e aggressioni. La povera Adriana non è riuscita a staccarsi in tempo dalla personalità isterica ed egocentrica del compagno che non l’ha lasciata andar via, un copione classico da femminicidio.

ALLA FINE l’artista è condannato a 7 anni di carcere ma ne sconterà solo 4. Però la sua vita è rovinata per sempre, i demoni l’accompagneranno per tutto il resto dell’esistenza, le sue nuove composizioni del tutto mediocri, lo storico repertorio riscoperto da generazioni di musicisti, da Vinicio Capossela a Eugenio Bennato, da Pino Daniele a Teresa De Sio, e utilizzato da programmi tv e film. Si ritrova solo, abbandonato dalla famiglia, tornando a vivere in una baracca del suo paesello, Lucifero con quel falsetto e i melismi da angelo. «Ma forse – conclude Lopez – proprio in ciò sta la sua persistente grandezza: in questa profonda contraddizione tra l’uomo e l’artista, fra la sua vita privata e la sua arte, oltre che nella sua irriducibilità, nella sua imprendibilità.Cosi forse lui si è difeso per tutta la vita da un mondo che non è mai riuscito a capire o anche solo ad accettare nella sua complessità, rimanendo il solo, l’unico vero cantante popolare italiano, non cellofanato dalla consapevolezza o dalla ricerca culturale, né dall’industria discografica e dello spettacolo. È rimasto quello di sempre: solo, disperato, intrattabile».