I dati parlano chiaro: i Cie non funzionano
La vicenda di Cona, nata dalla morte di una ragazza su cui andrà fatta chiarezza, è stata colta al volo dai seminatori d’odio per invocare «espulsioni di massa». Ma quello […]
La vicenda di Cona, nata dalla morte di una ragazza su cui andrà fatta chiarezza, è stata colta al volo dai seminatori d’odio per invocare «espulsioni di massa». Ma quello […]
La vicenda di Cona, nata dalla morte di una ragazza su cui andrà fatta chiarezza, è stata colta al volo dai seminatori d’odio per invocare «espulsioni di massa». Ma quello che desta maggiore preoccupazione in questi giorni, al di là della propaganda xenofoba dei soliti noti, è la nuova crociata contro gli immigrati irregolari.
Le misure allo studio del Viminale rappresentano la consueta risposta di facciata a una questione che affonda le sue radici in nodi strutturali finora mai affrontati.
Affermare infatti che occorre creare nuovi Cie e aumentare espulsioni e rimpatri, legittimando così l’equazione «clandestini uguale pericolo», significa ignorare ciò che ormai dovrebbe essere evidente a chiunque, visti i dati degli ultimi anni.
Il trattenimento in queste strutture si è dimostrato inefficace in termini di espulsioni e rimpatri: cioè gli obiettivi per cui sono state create.
Nel 2015, delle oltre 5mila persone rinchiuse nei Cie appena la metà è stata effettivamente rimpatriata, un dato rimasto costante negli ultimi anni. Questo perché i rimpatri vengono effettuati solo verso gli stati con cui l’Italia ha un accordo di riammissione: la collaborazione con le autorità consolari dei diversi paesi ai quali compete l’identificazione continua a essere scarsa e le spese, nonostante l’intervento di Frontex, sono molto alte.
Come il caso di Amri dimostra in modo emblematico, il passaggio dal Cie non sortisce effetti preventivi, visto anche il rifiuto da parte dei paesi di origine di riprendersi i soggetti davvero pericolosi. Il trattenimento si riduce a essere, come anche noi Radicali abbiamo avuto modo di verificare direttamente nel corso di alcune visite in questi anni, una misura restrittiva della libertà personale meramente afflittiva nei confronti di quelle poche migliaia di persone intercettate ogni anno, una percentuale tra l’altro minima, l’1% circa, rispetto ai 435 mila irregolari stimati oggi in Italia.
Il trattenimento nei Cie non è dunque in alcun modo funzionale a un governo efficace dei flussi migratori e non può rappresentare una soluzione.
Chi sono poi gli irregolari nel nostro Paese?
Nella stragrande maggioranza, l’irregolarità è dovuta agli ostacoli legislativi, amministrativi e burocratici imposti dalla Bossi-Fini, una legge che ha eluso totalmente la questione dell’integrazione e ha puntato tutto sul profilo della sicurezza e su una serie di restrizioni, a partire dagli ingressi per lavoro.
I risultati a distanza di anni sono evidenti: l’unico modo per entrare in Italia è con un visto turistico, prolungando poi illegalmente il soggiorno fino alla prima sanatoria. Come, del resto, molti di noi avranno potuto sperimentare scontrandosi con l’impossibilità di assumere badanti, baby-sitter o altre figure con l’attuale sistema a chiamata. E per chi un permesso di soggiorno è riuscito ad averlo, i requisiti di reddito per conservarlo sono sempre più proibitivi e la mancanza di pochi euro può mettere tutto in discussione, al di là degli anni già passati in Italia, della capacità di integrazione o della presenza di familiari. Irregolarità forzata che si traduce in manodopera disponibile a costi bassissimi e condizioni disumane, lavoro nero e sfruttamento.
Oppure si arriva in Italia, come sta accadendo negli ultimi mesi, rischiando la vita in mare per poi fare richiesta d’asilo. Coloro che poi non ottengono protezione – e il tasso è ormai del 60% – in molti casi si trovano in una sorta di limbo legale, per periodi molto lunghi, in attesa teoricamente di essere rimpatriati e con nessuna possibilità di rimanere legalmente in Italia e svolgere una regolare attività lavorativa. E quindi ancora lavoro nero e sfruttamento.
L’unica soluzione praticabile non può che andare nella direzione dell’inclusione reale degli stranieri nel territorio, come Radicali Italiani propone: superando finalmente la Bossi-Fini e favorendo in ogni modo la regolarizzazione di chi viene nel nostro Paese per lavorare onestamente, concentrando invece gli sforzi di polizia sui pochi, pochissimi, casi di effettivo pericolo.
È rischioso oggi legittimare quanti, in un clima di incertezza comprensibile di fronte al fenomeno con cui ci stiamo confrontando, soffiano sul fuoco della demagogia e della xenofobia anziché offrire strumenti e sostegno allo sforzo, difficile e quotidiano, che vede impegnati i nostri territori in termini di accoglienza e convivenza.
* segretario radicali italiani
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