Non c’è più limite al peggio nel calcio italiano. È una deriva costante, che si alimenta delle sue miserie. Anche nell’ultimo weekend,  dopo la mancata qualificazione della nazionale italiana ai Mondiali in Qatar, ovvero la foto di un movimento in crisi, si è visto il repertorio più desolante. I cori razzisti, ancora una volta, per il difensore del Napoli Kalidou Koulibaly, stavolta a Bergamo. Non che un segmento della tifoseria dell’Atalanta, al pari di altre, non si sia distinto in passato per ululati, offese a calciatori neri. Ma si è passata la misura. Quell’audio che circola in Rete, Koulibaly apostrofato da espressioni irripetibili, non può cadere nel vuoto, ancora una volta. Certo, vanno bene, benissimo le scuse del sindaco di Bergamo Giorgio Gori e anche la tempestiva presa di distanza dell’Atalanta, che si riserva di agire legalmente per tutelarsi da macchie che non vanno via. C’è stata anche la pubblica vicinanza anche della federcalcio senegalese – il Senegal ha vinto l’ultima Coppa d’Africa, a febbraio – a Koulibaly, capitano della nazionale africana.

MA NON BASTA, si deve andare oltre. Rintracciare gli autori delle offese e spedirli fuori dagli stadi. Ora si può, gli strumenti ci sono tutti. Non è più tempo di segnali distensivi, di inviti a non concedere la ribalta a personaggi in cerca di autore, di stimolare l’improbabile conversione dei razzisti. Non avviene, non avverrà. Anzi, si assiste a una specie di un happening settimanale, il lancio della scimmia a Koulibaly, uno di quelli che contro il razzismo si sono spesi per davvero, che a San Siro tre anni fa si è ritrovato espulso perché furioso per le contumelie razziste dagli spalti. Lo scorso ottobre un tifoso della Fiorentina si è beccato un Daspo di cinque anni per ripetute frasi razziste al difensore del Napoli (e a Osimhen e Anguissa). Lo stesso Koulibaly si è poi augurato un confronto personale con il supporter razzista, per provare a comprendere i motivi di tale barbarie. Forse è poco, forse il bando deve essere esteso. Forse servono segnali ancora più netti.

E QUALCHE ORA dopo gli episodi razzisti in Atalanta-Napoli, si è assistito a una specie di corrida all’Allianz Stadium. In Juve-Inter, calciatori a inseguire l’arbitro, confuso e travolto dal tifo, dai suoi errori – tra rigori non concessi e poi dati dal Var, cartellini rossi non sventolati -, tradito dagli strafalcioni dei collaboratori, dello stesso Var. Fischi obiettivamente complicati divenute scelte quasi impossibili per il tornello di atleti ad avvinghiarlo per ogni decisione. Urla, strepiti, gesti inequivocabili: prove tecniche di corrida, appunto. Ben oltre la componente emotiva, adrenalinica, di una partita che vale un pezzo di scudetto sia per bianconeri che nerazzurri. Anche Allegri ha aggiunto un po’ di peperoncino, con il lancio del cappotto in panchina, poi le simulazioni ridicole di Vlahovic e De Light, due per tutti. Cattive, radicate abitudini mai punite. Istantanee che rendono indigeribile il barcollante e non più competitivo calcio italiano all’estero.