I «convertiti» della democrazia nigeriana
Oggi al voto, Boko Haram permettendo 14 i candidati alle presidenziali, ma è sfida a due tra l’ex dittatore che odiava Fela Kuti e il «fortunato». 175 milioni di persone alle urne anche per rinnovare il parlamento del paese più popoloso d’Africa, alle prese con l’emergenza jihadista nel nord. Alla vigilia l’annuncio (sospetto) della vittoria sul Califfato da parte dell'esercito
Oggi al voto, Boko Haram permettendo 14 i candidati alle presidenziali, ma è sfida a due tra l’ex dittatore che odiava Fela Kuti e il «fortunato». 175 milioni di persone alle urne anche per rinnovare il parlamento del paese più popoloso d’Africa, alle prese con l’emergenza jihadista nel nord. Alla vigilia l’annuncio (sospetto) della vittoria sul Califfato da parte dell'esercito
I due principali contendenti alla presidenza della Nigeria hanno ieri lanciato i loro ultimi appelli per un voto pacifico. Ma il messaggio elettorale più forte arriva dall’estremo nord-est del paese, dove infuria il conflitto tra Boko Haram e gli eserciti di ormai ben quattro paesi (oltre alla Nigeria, “padrona di casa”, la guerra coinvolge a pieno titolo i confinanti Ciad, Niger e Camerun). L’esercito nigeriano ha annunciato infatti la riconquista di Gwoza, che dall’agosto del 2014 era quasi una capitale per il Califfato proclamato nello stato di Borno. I «terroristi» – giurano i militari – sono stati scalzati da tutte le città e le comunità di cui avevano assunto il controllo.
Quel che l’esercito non dice, pressato, a volte finanche deriso dalla comunità internazionale per la prolungata inerzia di fronte all’espansionismo territoriale dei jihadisti, è che il grosso del lavoro lo hanno svolto i soldati dei paesi vicini, con dispiego di aviazione e truppe di terra meglio armate. Sembra che a Damasak le unità nigerine e ciadiane che hanno liberato ormai da quattro giorni la città stiano ancora aspettando che si facciano vivi i soldati nigeriani per riconsegnargliela.
Sia come sia, la controffensiva è stata vittoriosa e finalmente si può votare. O almeno si spera. In questo gigante africano dai piedi di argilla poggiati su un giacimento di petrolio, con proventi che escludono sistematicamente i suoi 175 milioni di abitanti, la verità, vuoi per la guerra, vuoi per la tradizionale opacità e corruttibilità del potere, è sempre la prima vittima.
Anche vista da fuori, la situazione non è sempre chiarissima. Un piccolo esempio di come sia facile provocare cortocircuiti quando si maneggia la storia recente della Nigeria l’offriva tempo fa un un servizio trasmesso da Tv7, su Raiuno L’inviato in Nigeria (merce rara) intervista un imam “moderato” sul tema Boko Haram e mentre questi sciorina il catalogo delle atrocità jihadiste, in sottofondo pulsa irriducibile un brano di Fela Kuti, compianto inventore dell’afrobeat che oggi è patrimonio mondiale della musica nera al pari del blues e del jazz. «Pena, lacrime e sangue / è il loro marchio di fabbrica / (…) / Tutti scappano, tutti sono terrorizzati», scandisce la voce indignata di Fela. E sembra vero. Abituati a scorciatoie che a commento di qualsiasi paese africano impongono suoni e voci di qualsiasi altro paese, ché tanto sempre Africa è, tanta pertinenza abbaglia. Peccato che Fela ce l’avesse proprio con chi oggi dovrebbe-vorrebbe sbaragliare i miliziani islamisti. Insomma, le nefandezze di cui parlava sono quelle dell’esercito nigeriano.
Cosa avrebbe pensato Fela di Boko Haram non è dato saperlo, perché il musicista è scomparso nel 1997 (secondo il figlio Seun, che ne ha ereditato anche il profilo politico, non si tratta di «rivoluzionari» ma di «un’entità creata apposta per destabilizzare il paese»). L’esercito nigeriano invece è sempre lì e continua ad essere noto alla popolazione più per le vessazioni inflitte che per la protezione offerta.
Muhammed Buhari, il più accreditato antagonista del presidente Jonathan nel voto di oggi, viene da lì. Ex generale golpista, è stato presidente dal 1983 al 1985. A Fela Kuti, come a chiunque criticasse apertamente la dittatura, ha fatto vedere i sorci verdi: arrestato nel 1984 mentre era in partenza per un tour negli States (l’accusa di esportazione illegale di valuta anche Amnesty la definì ridicola), il musicista, che guarda caso in quel periodo si era messo in testa di capitalizzare la popolarità di cui godeva candidandosi alle presidenziali, venne condannato a dieci anni di carcere e dovette aspettare il golpe successivo del generale Babangida, 18 mesi più tardi, per tornare libero.
L’epoca del cosiddetto «buharismo» viene ricordata per una serie di decreti d’emergenza, giudicati tra i più repressivi e liberticidi della storia post coloniale africana. Un’era buia iniziata con il rovesciamento del presidente Sheu Usman Shagari, a cui Buhari aveva sonoramente disubbidito, lanciandosi all’inseguimento di quelle stesse truppe chadiane che oggi stanno aiutando la Nigeria a ridimensionare la minaccia Boko Haram.
Candidato odierno dell’All progressives congress, ora Buhari si definisce un «democratico convertito». E punta tutto sulla lotta alla corruzione. Ma nel 2011, da candidato del Congress of Progressive Change (Cpc), al terzo tentativo di diventare presidente, si riprometteva di rafforzare la Sharia negli stati del nord-est, minimizzava sulle violenze di Boko Haram, criticava i metodi usati dal governo contro i jihadisti e indicava nella guerriglia del Mend a sud la vera emergenza del paese. Nel 2012 i jihadisti lo volevano come mediatore tra loro e il governo di Abuja, ma lui si sottrasse. Solo nel 2014, dopo il rapimento delle 200 studentesse di Chibok, ha condannato senza mezze misure gli insurgenti. E poco dopo è sfuggito a un attentato, a Kaduna, nel quale sono morte 82 persone.
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