Europa

I contropoteri delle comunità resistenti

Movimenti Un salto negli Stati Uniti, alla riscoperta delle pratiche anti-oligarchiche del «community organizing»

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 27 febbraio 2015

Negli Stati Uniti, dove le oligarchie hanno da sempre mostrato il volto più moderno e sofisticato, la sfida al loro strapotere ha ispirato lo sviluppo di correnti democratiche radicali il cui fine principale è stato quello della ridistribuzione sociale del potere. La principale tra queste correnti è senza dubbio quella del community organizing. Fondato da un sociologo allievo di Clifford Shaw nella Chicago degli anni ’30, Saul Alinsky, si tratta di un metodo finalizzato alla creazione di forme di sindacalismo di comunità d’ispirazione solidale che si mobilita, attraverso la costituzione di organizzazioni formalmente strutturate, su obiettivi specifici e di ampiezza relativamente limitata.

Nello storico distretto proletario del meatpacking nella Chicago degli anni trenta, Alinsky (il cui capolavoro, Reveille for Radicals, è in uscita in traduzione italiana per le Edizioni dell’asino, a cura di chi scrive) era stato protagonista di uno dei più straordinari esempi di sindacalizzazione e costruzione comunitaria della storia americana. Al centro della sua ricetta vi era l’idea che l’azione politica e sociale democratica dovesse avere come fine fondamentale la costruzione del potere fra i deboli e gli esclusi. Tutto ciò sulla base della percezione che dei propri interessi avevano le stesse popolazioni mobilitate, del coinvolgimento del territorio in tutte le sue forme, della tessitura di coalizioni sociali larghe e in una certa misura inusuali. E puntando infine sulla laboriosa costruzione di leadership naturali e indigene che fossero espressione diretta dei gruppi mobilitati.
Dagli anni trenta in avanti, la tradizione del community organizing ha animato decenni di battaglie progressiste nel paese – dal movimento per i diritti civili ai movimenti per i diritti di welfare – per poi dare un contributo fondamentale, sulla soglia degli anni novanta, alla rivitalizzazione del movimento sindacale e del progressismo americano. Dalle grandi organizzazioni impegnate nelle campagne di massa per la registrazione al voto delle minoranze quali l’Association of Community Organization for Reform Now (sciolta nel 2010) fino alle organizzazioni sindacali impegnate nella sindacalizzazione di settori ad alta intensità di manodopera – il terziario arretrato dove si concentrano i migranti, e in particolare i migranti latinos – quali la Service Employees International Union, passando per gli esperimenti di sindacalismo territoriale portati avanti da coalizioni innovative quali la Los Angeles Alliance for a New Economy, il patrimonio di tecniche e stili e organizzativi ereditato dal community organizing ha vissuto una nuova promettente fioritura.

L’eredità principale di questa tradizione anti-oligarchica consiste innanzitutto nella capacità di ridare vita a comunità powerless. Ed è questa la ragione della sua recente scoperta europea, che dall’Inghilterra si è propagata a Francia, Germania e anche Italia: si ricerca un’ispirazione pragmatica, per sperimentare nuovi inneschi organizzativi della mobilitazione. I motivi di questa riscoperta sono diversi e tutti fondati: la crisi gravissima dei paradigmi culturali e organizzativi dell’azione sociale legati alla tradizione socialista e l’apparente irriformabilità di molti dei loro stanchi eredi; il farsi strada di un’interpretazione della democrazia proattiva e volontarista, fatta d’investimenti strategici su soggetti e discorsi per mezzo di organizzazioni progettuali, adatte a una vita sociale turbolenta e in costante cambiamento, in cui le strutture di potere sono viscose ma non sono date una volta per tutte.

Con il community organizing si accetta il piano della democrazia deliberativa prendendo sul serio nello stesso tempo i suoi limiti, a partire dalle differenze nell’accesso alle risorse cognitive e culturali che sono indispensabili alla partecipazione alle diverse arene pubbliche: si punta così a redistribuire il potere e il sapere. Ricostruire questo capitale collettivo – con logiche e pratiche organizzative che permettano di conservarlo – è precondizione per il controbilanciamento del potere oligarchico e di rendita. Il community organizing ricorda agli organizzabili che il potere – per quanto sfuggente, complesso, articolato in dimensioni multilivello – è un gioco a somma zero: o si vince o si perde.

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