Lavoro

I contratti a termine non finiscono più, battuto il record di oltre tre milioni

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Istat A giugno c’è stato il record storico dei contratti a termine: 3 milioni 105 mila; l’aumento della disoccupazione al 10,9% e di quella giovanile (32,6%); il calo di uno dei tassi di occupazione più bassi d’Europa (58,7%) e il calo dell’inattività al minimo storico. La variazione mensile registrata dall’Istat ha recepito una tendenza ormai strutturale del mercato del lavoro italiano e indica che la crescita occupazionale è basata lavoro precario, a termine, in somministrazione o a chiamata. è il segno del fallimento del Jobs Act, nella sua parte sul contratto a «tutele crescenti», ma anche il suo trionfo: il «decreto Poletti» ha «liberalizzato» i contratti a termine. Questo è il risultato. E oggi la politica dibatte se le norme del «decreto dignità» basteranno a invertire la tendenza

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 1 agosto 2018

A giugno c’è stato il record storico dei contratti a termine – 3 milioni 105 mila; l’aumento della disoccupazione al 10,9% e di quella giovanile (32,6%); il calo di uno dei tassi di occupazione più bassi d’Europa (58,7%) e il calo dell’inattività al minimo storico (che spiega l’aumento della disoccupazione) . La variazione mensile recepisce una tendenza ormai strutturale del mercato del lavoro e indica che la crescita occupazionale è basata lavoro precario, a termine, in somministrazione o a chiamata. Lo conferma ancora il calo dei dipendenti permanenti (-56 mila, in maggioranza donne). Questa è una conferma che il Jobs Act è stato un fallimento: la sua velleità di imporre il contraddittorio «contratto a tutele crescenti», dove a crescere è la libertà di licenziare senza articolo 18. Ma, allo stesso tempo, ha funzionato nella parte del «decreto Poletti», quello che ha liberalizzato i contratti a termine senza «causale». La contraddizione normativa è stata nascosta dalla droga dei bonus alle imprese, un’enorme quantità di denaro pubblico (18 miliardi) destinati a incentivare l’occupazione «fissa» (si fa per dire). Finiti i bonus, è rimasta l’alluvione dei contratti a termine. Oggi il mercato del lavoro si è conformato a questo assetto in cui l’impresa vanta un potere sociale immenso. Al centro ci sono i 15-34enni e, soprattutto, gli over 50, tra l’altro costretti più a lungo al lavoro dalla riforma Fornero.

Ieri, in coincidenza con l’analisi degli emendamenti al «decreto dignità» alla Camera, la politica si è scatenata sull’analisi di questi dati. In discussione è l’efficacia della manutenzione normativa sui contratti a termine: taglio dei rinnovi (da 5 a 4), della durata (da 36 a 24 mesi), reintroduzione della causale (dopo 12 mesi), aumento dello 0,5% contributivo a rinnovo, aumento dell’indennità, fino a 27 mesi, in caso di licenziamento individuale ingiustificato. I senatori M5S insistono sul fatto che la modifica normativa basterà a «uscire dalla spirale d’incertezza». Per evitare il prevedibile turn-over operato dalle imprese sui precari sono stati previsti 300 milioni di sgravi contributivi al 50% per gli under 35 fino al 2020, una proroga di quelli lasciati dal Pd. Saranno, per la Ragioneria dello Stato, 62.400 persone a usufruirne (31.200 l’anno). Cosa accadrà dopo la fine dei bonus, si vedrà. Cifre modeste che, al netto degli 8 mila contratti in meno all’anno stimati dall’Inps (quelli della «manina»), potrebbero portare il saldo tra cessazioni e attivazioni dei contratti ad essere «neutro». La variazione normativa non modifica né il Jobs Act, né la struttura del mercato.

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