I conti sbagliati dell’Unione europea
Derive Due Europe si confrontano: quella dell’austerità, e un’altra sociale. L’unica via possibile è ribaltare l’egemonia della prima a favore della seconda
Derive Due Europe si confrontano: quella dell’austerità, e un’altra sociale. L’unica via possibile è ribaltare l’egemonia della prima a favore della seconda
L’Europa si trova in un vortice di recessione, aumento della disoccupazione e delle diseguaglianze, il rischio concreto di un collasso dell’euro e dello stesso progetto di Unione europea. I problemi maggiori sarebbero nei Paesi del Sud che hanno vissuto al di sopra delle loro possibilità, con un eccesso di spesa pubblica. Oggi non c’è alternativa ai piani di austerità per diminuire debito e deficit. Le imprese devono diventare più competitive, in modo da esportare di più e contribuire così a un miglioramento dei conti pubblici. Nella stessa direzione occorre accelerare con le privatizzazioni sia per fare cassa sia per la maggiore efficienza del privato. Piani di austerità, competitività per rilanciare l’export, privatizzazioni. E’ questa la ricetta proposta, o meglio imposta dalla Troika e dai decisori europei.
Basta guardare l’andamento del rapporto tra debito e Pil, in Italia come negli altri Paesi europei, per capire quanto tale lettura sia fallace: un rapporto costante o in diminuzione fino al 2008, e che si impenna unicamente dopo la devastante crisi della finanza – privata, non certo pubblica – scoppiata con la bolla dei subprime negli Usa. Ancora a monte, in tutti i Paesi passati dalle forche caudine dell’austerità lo stesso rapporto debito/Pil continua oggi a peggiorare; un fallimento economico, oltre che un disastro sociale. L’austerità è il problema, non la soluzione: una cura sbagliata a una diagnosi altrettanto sbagliata.
Possibile che i decisori europei siano tanto miopi? Il problema non è nell’analisi, ma a monte, in una visione economica che non considera diseguaglianze o crollo dei consumi e della domanda, ma postula la necessità di aumentare e migliorare l’offerta. È la visione liberista e mercantilista che domina l’Ue: tagliamo la spesa pubblica, le tasse, i salari, in modo da rendere le imprese europee più competitive. Questo porterà ad attrarre più investimenti e a esportare di più, il che successivamente porterà a una crescita del Pil e infine dell’occupazione. Competitività significa vincere la concorrenza internazionale.
Se però tutti adottano la stessa teoria, o qualcuno trova il modo di esportare su Marte o evidentemente se qualcuno vince altri devono perdere. La stessa idea dell’Ue cede il passo a una competizione europea in cui ogni Paese cerca di superare il vicino. Una corsa verso il fondo in materia ambientale, sociale, fiscale e dei diritti pur di attrarre capitali e imprese. L’intero peso di una crisi causata dal collasso del gigantesco casinò finanziario privato è scaricato su lavoratrici e lavoratori e sulle classi sociali più deboli in termini di precarietà, perdita di diritti e tagli al welfare. Chi non ha alcuna responsabilità per lo scoppio della crisi ma anzi ne ha già pagato il prezzo più alto si trova una volta di più con il cerino in mano.
Due Europe si confrontano, due visioni economiche e sociali incompatibili. La prima fondata sull’austerità, le privatizzazioni e la flessibilità – leggi precarietà – nel mondo del lavoro, il tutto nel nome della competitività. La seconda che vede al contrario la necessità di premere l’acceleratore verso un’Europa sociale, fiscale e dei diritti che sappia bilanciare l’Europa dei capitali e finanziaria. Che chiede un piano di investimenti di lungo periodo per la creazione di posti di lavoro in settori chiave per il futuro: la riconversione ecologica dell’economia, la mobilità sostenibile, l’efficienza energetica, la ricerca e la formazione. Per la creazione di un’Unione e di una cooperazione tra Stati, non di una competizione esasperata su scala europea e internazionale.
Oggi è però la prima visione ad essere egemone, non solo nelle forze apertamente liberiste, ma ancora prima in buona parte dei governi e dei partiti che si definiscono progressisti o di centro-sinistra. Ribaltare tale rapporto di forze significa dovere ricostruire l’immaginario della crisi e il linguaggio costruiti in questi anni. Un lavoro non solo economico o politico, ma prima ancora culturale. Un percorso difficile, ma l’unico possibile per salvare l’Unione Europea dal vicolo cieco in cui essa stessa si è infilata.
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