Europa

I confini di guerra dell’Europa

I confini di guerra dell’EuropaKobane, miliziane della sinistra kurda – Reuters

Globalizzazione Povertà, miseria, emarginazione prodotte dall’austerity radicalizzano lo scontro tra chi si sente espulso dal mondo «normale» che gli è stato promesso e chi ancora pensa di appartenervi. In questo contesto l’Ue risponde alimentando i sistemi istituzionali di esclusione e i conflitti militari che ormai premono alle frontiere

Pubblicato quasi 10 anni faEdizione del 30 gennaio 2015

Dobbiamo imparare a ridisegnare i confini dell’Europa, prima ancora che sulla carta geografica, nella nostra rappresentazione mentale. Ad aver allargato quei confini non sono solo né soprattutto i motori della globalizzazione: la “libera” (cioè controllata da un numero sempre più ristretto di uomini ricchi e potenti) circolazione di capitali, merci e informazioni, bensì le privazioni e la violenza esercitate direttamente sui corpi vivi delle persone.

Ai confini politici (meglio sarebbe dire, amministrativi) dell’Europa ci sono infatti guerre, ormai trasformate in belligeranza endemica senza frontiere che l’Europa contribuisce ad alimentare con la subalternità agli Stati Uniti, che quei conflitti hanno promosso e foraggiato, armando forze che poi gli si rivoltano contro e che non sanno più come fermare: Israele e Palestina, Libano, Iraq, Libia, Siria, Ucraìna e, sullo sfondo, Eritrea, Niger e Nigeria, Afghanistan e Pakistan… Quei conflitti – insieme alla crisi ambientale e alla miseria indotta da politiche commerciali predatorie – continuano a creare milioni di profughi (i di fronte ai quali appaiono irrisori i «flussi» che l’Unione Europea cerca di arrestare con Frontex, o di scaricare sugli Stati più deboli ed esposti con l’arma di Dublino 3).

I centri di annientamento

Oggi essi premono ai confini; ma prima o dopo li sfonderanno in massa a meno di adottare politiche di sterminio di cui si vedono le prime manifestazioni: al di là e al di qua dei confini «amministrativi» dell’Unione Europea sono in funzione da anni veri e propri centri di annientamento psicologico e fisico di migliaia di esseri umani a cui non si riconoscono i diritti intrinseci a una cittadinanza che, se è, non può essere che mondiale. Al di là, con finanziamenti italiani ed europei, come in Libia e in Sudan, o in forme affidate all’inventiva contrapposta di governi e migranti, come in Marocco, Egitto, Turchia, sono stati istituiti veri e propri campi di internamento e pattuglie armate con il solo scopo di fermare quell’umanità dolente prima che arrivi a toccare il sacro suolo dell’Unione sottraendoli allo sguardo dei cittadini europei mentre vengono massacrati. Al di qua, si moltiplicano i centri di detenzione, come i CIE in Italia, con costi e ruberie che, altrimenti indirizzati, basterebbero a garantire a uomini e donne imprigionate una vita decente per anni; e vengono continuamente creati, sgomberati e fatti risorgere campi per il popolo dei sinti e dei rom, a cui si sta negando il diritto di cittadinanza anche quando ne sono titolari.

Charlie Hebdo e non solo

Ma questa è solo la punta dell’iceberg: centinaia di migliaia di uomini, donne e bambini sono condannati all’inesistenza giuridica dalle leggi che istituiscono e puniscono il reato di clandestinità; sono destinati a girare da un ricovero di fortuna all’altro, pur essendo noto che la clandestinità produce, attira e moltiplica non solo criminalità minuta, ma soprattutto reclutamento da parte della criminalità grande e protetta.

Chi fa queste scelte non dice come pensa di «venirne a capo»; a quali approdi miri se non a una continua recrudescenza per «normalizzare» – e far accettare, passo dopo passo – lo sterminio di intere comunità. Infine, quelle guerre ai confini «amministrativi» dell’Europa, ma ben dentro il suo territorio «politico», stanno creando anche nel cuore del continente un solco sociale ed esistenziale profondo tra migranti o immigrati di seconda o terza generazione che mantengono ancora dei legami, stretti o laschi, o anche solo ideali e, sempre più religiosi, con i paesi di origine e le loro comunità, da un lato; e, dall’altro, un numero crescente di elettori «autoctoni», sospinti dalle «destre» – e dal loro inseguimento da parte di tanta «sinistra» – a percepirsi come un popolo invaso e espropriato della propria identità. Povertà, miseria, emarginazione e frustrazione prodotte dall’austerity non fanno che radicalizzare la contrapposizione tra chi si sente escluso da un mondo «normale» a cui gli era stato promesso di accedere e chi ancora pensa di appartenervi e vive nel timore di venirne emarginato – ed è spinto a vedere in chi già lo è per una «tabe originaria» la causa di questa minaccia. Questa contrapposizione, rinfocolata per ragioni elettorali dagli imprenditori della paura, comincia a far proliferare imprese terroristiche i massacri della redazione di Charlie Hebdo e nel supermercato kasher di Parigi, che estendono al cuore dell’Europa i fronti delle guerre in corso ai suoi confini. E, certo, non ad opera della massa anonima dei nuovi arrivati, per lo più con mezzi di fortuna, che si vorrebbe fermare «chiudendo le frontiere»; ma per mano di un numero crescente, ancorché ridotto, di giovani che una radicalizzazione distorta sospinge verso il fondamentalismo e una violenza senza ritorno.

I ragionieri del debito

In questo contesto i ragionieri del debito e della spesa pubblica alle dipendenze degli interessi che hanno preso il comando dell’Unione Europea mostrano tutta la miseria, la cecità e l’impotenza di una politica senza sbocco. Nei teatri di guerra i governi dell’Unione non hanno una politica per venirne a capo. Ma nei paesi membri – compresi quelli cosiddetti «forti», come la Germania – dove le differenze sociali si fanno insostenibili, l’austerity sta creando una conflittualità a sfondo razziale che ha uno sbocco obbligato sia nell’azzeramento di tutte le aspettative riposte – fin dai tempi del Manifesto di Ventotene – nella costruzione dell’edificio europeo; sia in un catastrofico dissolvimento delle sue istituzioni, a partire dall’euro.

La società europea – e non solo – non può più essere ridotta alla divisione e al conflitto tra capitale e lavoro, i cui confini sono sempre più labili e le cui forme sempre meno definite; e nemmeno alla tripartizione tra élite, classe media e gruppi marginali, dato che la classe media è stata assottigliata e devastata dalla crisi. Ormai troviamo anche qui, in successione, «l’1 per cento» di padroni del mondo; una «casta politica» di destra e sinistra asservita ai loro interessi; un «mondo del lavoro» – di chi il lavoro ce l’ha – sempre più precario, disgregato e insicuro; e un arcipelago di emarginati – il ritorno alle «classi pericolose» dell’800 – a un estremo del quale c’è il popolo dei reclusi nei campi per profughi, immigrati e clandestini, e il cimitero dei naufraghi del Mediterraneo.

Ma per fortuna non c’è solo questo. Se si creassero in Europa delle enclaves di tolleranza e accoglienza, i legami che permangono tra profughi, migranti e le loro comunità di origine potrebbero essere una base per una alternativa di governo anche nei paesi da dove sono fuggiti. La dimensione euromediterranea è già una realtà.

Il ciclo di lotte di questa fase è nato in Tunisia, sulla sponda sud del Mediterraneo, con le primavere arabe, presto «normalizzate», o schiacciate nel sangue, o entrambe le cose, non senza interventi militari devastanti e insensati, che hanno lasciato non solo macerie, ma anche giganteschi grumi di odio, milizie armate assetate di denaro e potere, instabilità permanenti. Perché quelle primavere, nate da un rifiuto del modello economico e sociale esportato dall’Occidente – con il venir meno, ben prima dell’89, di un’emancipazione perseguita adottando, formalmente, percorsi «socialisti» – non hanno trovato nei paesi della sponda nord del Mediterraneo un modello alternativo a cui rifarsi.

Da Syriza a Kobane

Nondimeno, l’effetto è rimbalzato prima in Spagna con il movimento M15; poi in tutto il continente nordamericano, con Occupy Wall Street e Occupy the World, e poi di nuovo in Europa, con Syriza e soprattutto Podemos, che ne hanno raccolto e consolidato gli spunti più creativi.

Ma se anche noi possiamo vantare un’esperienza esemplare come la lotta ventennale della Val di Susa – una delle punte più avanzate della resistenza contro lo scempio sociale, ambientale ed economico dell’evoluzione del modello occidentale, che ha dato respiro a tutti quei NO-qualcosa che costellano il panorama delle lotte sociali in Europa – è ancora sull’altra sponda del Mediterraneo, proprio nel cuore della guerra guerreggiata, nelle comuni autogestite del Rojava e nella difesa di Kobane, che si trova l’esempio più avanzato di autorganizzazione, di condivisione, di resistenza e, soprattutto, di rovesciamento radicale di quella sottomissione totale della donna all’uomo che costituisce la bandiera di tutti gli integralismi: di quello feroce e sanguinario del fondamentalismo islamico come di quello tradizionalista (o sconciamente sessista: pari sono) in cui si è rifugiata «la difesa dei valori occidentali».

Un esempio, quello del Rojava, che porta finalmente alla ribalta della lotta sociale – e purtroppo anche della guerra – un rovesciamento dei rapporti tra uomini e donne che può minare alle radici tanto la ferocia dei regimi islamici integralisti quanto la cultura patriarcale che ancora domina, in Oriente e in Occidente. È il rovesciamento a cui ci invita da alcuni decenni la rivoluzione femminista per insegnarci ad affidare la lotta politica e sociale, e il nostro modo di organizzare conflitto e partecipazione, a una critica radicale dei mille risvolti in cui si incarna la cultura patriarcale.

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