«I clan impongono il pizzo su tutto, dalle buste alle mozzarelle»
Rosario D'Angelo. Federazione associazioni antiracket Rosario D’Angelo ha un’impresa edile, fino al 2005 pagava il pizzo ai clan per lavorare. Poi scoprì che Tano Grasso aveva assunto l’incarico di consulente antiracket per il comune di […]
Rosario D'Angelo. Federazione associazioni antiracket Rosario D’Angelo ha un’impresa edile, fino al 2005 pagava il pizzo ai clan per lavorare. Poi scoprì che Tano Grasso aveva assunto l’incarico di consulente antiracket per il comune di […]
Rosario D’Angelo ha un’impresa edile, fino al 2005 pagava il pizzo ai clan per lavorare. Poi scoprì che Tano Grasso aveva assunto l’incarico di consulente antiracket per il comune di Napoli così, con altri colleghi imprenditori, decise di incontrarlo. Misero su la prima associazione di categoria per opporsi alle estorsioni con nove affiliati, adesso sono oltre 130 e il pizzo sui cantieri non lo pagano più da dodici anni. E’ coordinatore regionale per la Campania del Fai – Federazione Associazioni Antiracket e Antiusura Italiane.
D’Angelo, come vengono tartassate le attività nei mercati popolari napoletani, ad esempio alla Maddalena?
Di solito ai commercianti viene imposto l’acquisto di buste di plastica, i sacchetti per la merce o quelle per confezionare gli abiti, a prezzi maggiorati dal clan. Alle botteghe alimentari viene anche imposta la fornitura di latticini e pane da caseifici e forni controllati dalla camorra, anche questi a prezzi maggiorati e non sempre di buona qualità. Oppure c’è la richiesta estorsiva classica cioè di pagare il pizzo tre volte l’anno. Gli ambulanti invece devono pagare una quota fissa a settimana, che può variare dai 10 ai 20 euro. I migranti vengono a contatto con la camorra perché sono obbligati a rivolgersi ai clan per vendere la merce contraffatta, per cui pagano un prezzo alto e di conseguenza il loro margine di guadagno è minimo. Se poi devono anche dare la quota fissa settimanale allora diventa difficile andare avanti.
E sui cantieri edili?
Gli emissari arrivano immediatamente, alla vista dei primi ponteggi. Possono arrivare a imporre la manodopera ma la prima richiesta che fanno è una percentuale sull’importo dei lavori, che va dal 5 al 10%. Il margine di guadagno medio per l’imprenditore è del 20%, così il clan diventa un socio che non fa nulla ma si porta a casa metà dei profitti. E’ difficile anche per i commercianti, soprattutto per le piccole attività: l’emissario chiede tra i 3mila e i 5mila euro all’anno, se non riesci a coprire la cifra devi rivolgerti a un usuraio, che poi è una delle attività della camorra. In un anno gli interessi possono arrivare anche al 200% e finisci per regalare la tua bottega a chi ti taglieggia.
E’ un fenomeno diffuso?
Droga ed estorsione sono le attività prevalenti del sistema criminale. Non esiste quartiere di Napoli dove ci siano commercianti che non paghino il pizzo. In alcune aree è presente a macchia di leopardo mentre in altre è un problema diffuso. Nella zona del Vasto fino al Centro Direzionale non si paga ma a 500 metri, in piazza Principe Umberto, pagano anche gli ambulanti. Al corso Garibaldi c’è chi non versa niente ma in altri esercizi i clan entrano e si portano via la merce che vogliono senza pagare. A Chiaia e al Vomero, due zone commerciali borghesi, si paga: ad esempio al Vomero le botteghe tradizionali sono sparite quando i fitti sono schizzati a 10mila, 15mila euro al mese. Il clan firma il contratto, paga per quattro o cinque mesi e poi non paga più. Fino a che non arriva lo sfratto resta dentro e vende la sua merce, dopo due o tre anni va via ma di solito viene rimpiazzato da un altro commerciante legato alla camorra. Questo perché gli affitti sono proibitivi.
Cosa si può fare per contrastare il fenomeno?
Bisogna diffondere una diversa consapevolezza. Il boom del movimento contro il pizzo in Campania l’abbiamo avuto nel 2012: a Ercolano venne scoperto il libro mastro della camorra locale con i nomi dei commercianti e quanto pagavano. Le forze dell’ordine convocarono gli imprenditori uno dopo l’altro, bastò che uno di loro confermasse le accuse per provocare una slavina. Una settantina di affiliati al clan finirono in galera, nacque una forte associazione antiracket e da allora il fenomeno a Ercolano è stato debellato. Il Fai ha molte associazioni diffuse a Napoli e in regione, andiamo nelle scuole, facciamo dei banchetti per intercettare i consumatori e convincerli a impegnarsi un «consumo critico». Andiamo negli esercizi commerciali por informare sulle norme che proteggono chi denuncia. C’è bisogno di uno sforzo comune tra forze dell’ordine, consumatori e imprenditori.
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