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I cinquant’anni di attesa della guerriera ferita

Mose e politica Galosce, cosciali, stivali waders, persino goldoni, parole che non fanno parte del vocabolario comune ai cittadini italiani, ma di quello dei veneziani sì. La minaccia delle maree è sempre stata […]

Pubblicato quasi 5 anni faEdizione del 16 novembre 2019

Galosce, cosciali, stivali waders, persino goldoni, parole che non fanno parte del vocabolario comune ai cittadini italiani, ma di quello dei veneziani sì. La minaccia delle maree è sempre stata parte della della storia di questa città, e nel corso dei secoli si può dire che abbia contribuito a plasmare la forma mentis degli abitanti, inclini a rialzarsi di fronte ad ogni tragedia o calamità naturale. Di per sé la capacità che la città ha di far fronte da sola alla spinta inesorabile delle acque è qualcosa di innegabilmente poetico, la fa sembrare una guerriera imperturbabile, che sfida a mani nude qualcosa di molto più grande di lei, ma come per un’eroina tragica il finale più scontato è quello di soccombere.

La sua capacità di resistenza varia a seconda del livello che le acque raggiungono sul medio-mare. Le acque fino a +80cm non sono così rare, sopra i 110cm sono disastrose. A quel livello anche le paratie che servono per camminare per le calli dell’isola vengono tolte perché inutilizzabili. Il sale non perdona, non è come un allagamento d’acqua dolce; penetra a fondo, si deposita all’evaporazione dell’acqua, devasta gli arredi, rompe i motori delle pompe, fa saltare i mosaici, quel che tocca distrugge.

La gravità del problema è nota dal secolo scorso, dopo la piena del 1966, la più grande storicamente verificata. Anche in quel caso, il problema non era solo locale, ma riguardava l’intera penisola italiana. In quel novembre andarono sott’acqua anche le campagne del Nordest con la tristemente celebre alluvione del Piave. L’acqua a Venezia il 4 novembre 1966 toccò i +194cm, fu un disastro. Alla piena di due giorni fa mancavano solo 7 cm.

Nel 1973, sulla scia di quella catastrofe, venne varata la Legge speciale per Venezia. La n° 171 «Interventi per la salvaguardia di Venezia» che tentava di affrontare in maniera organica la salvaguardia della città lagunare ponendola come obiettivo di interesse nazionale. L’idea del sistema Mose nasce anche da lì. Modulo Sperimentale Elettromeccanico, un sistema di 78 paratoie mobili divise in quattro schiere, poste alle bocche di accesso alla laguna, composte da scatolari metallici cavi, agganciati sul fondo del mare tramite cerniere che ne consentono il movimento.

Un elemento già funzionante, pur parte di un’opera molto più grande, c’è. Il Baby Mose ripara il centro di Chioggia, isolando il canale principale del centro dalla laguna in caso di acqua alta. La struttura entra in funzione a +90cm d’acqua sul medio mare e può agire fino a +130cm, oltre quel limite non ha più effetto: il testimone dovrebbe passare al fratello maggiore, il Mose vero e proprio, che a distanza di decenni non è ancora attivo.

Se da una parte in queste ore c’è un grande richiamo trasversale all’unità nazionale, c’è anche uno scaricabarile di responsabilità tra comune, regione e Stato.

L’intero Consorzio Venezia Nuova è commissariato, la sua gestione è statale, e verrebbe da segnalare che se si è arrivati a ciò è perché sia a livello comunale (Giorgio Orsoni, ex sindaco accusato di finanziamento illecito e assolto solo grazie al mefitico Deus ex machina della prescrizione) sia a livello regionale (ex governatore Giancarlo Galan, che solo patteggiando riesce ad ottenere uno sconto di pena per le accuse di corruzione e si accorda per una restituzione di 2,5 milioni, misera se confrontata con il maltolto di 15 milioni di euro), a destra e a sinistra, il MoSE, da opera strategica per la salvaguardia dell’interesse pubblico è diventato una mangiatoia per la politica italiana.

L’intera vicenda ha l’odore acre di decenni di sprechi, agitazioni, polemiche, rinvii, manette, dimissioni, commissariamenti, buonuscite, come i 7 milioni dati all’Ingegner Mazzacurati del Consorzio Venezia Nuova, che si è goduto la fine dei suoi giorni nella ridente California prima ancora di vedere la fine del processo. Il tutto per un’opera la cui costruzione è iniziata nel 2003, e che, alle stime attuali, è costata complessivamente tra i 5 e i 7 miliardi di euro. Esiste una misura tutta italiana di arrivare quando la situazione è ormai tragica. Il 29 ottobre 2018 fu un altro disastro sfiorato, si parlò di «clemenza» perché il vento in senso contrario allo Scirocco aveva fermato la drastica avanzata delle acque a +156cm, questa volta quella clemenza non c’è stata. Dopo la risonanza iniziale, i problemi cadono rapidamente nel dimenticatoio, via l’eco mediatico, cala l’interesse politico. Rimangono i problemi, poco discussi fino a che esplodono, è così per Ilva, e così per il MoSE, è così per tante cose.

Alle molte polemiche del tipo «ma di cosa ci stupiamo, San Marco va sempre sotto appena si alza un po’ l’acqua», rispondiamo sì, la Piazza, ma la Basilica in 1200 anni sott’acqua c’è andata 6 volte, l’inquietante è che 3 di queste sono concentrate negli ultimi vent’anni. Il cambiamento climatico non è più uno scherzo né una bufala. Non è una farsa, come sostiene il presidente americano Donald Trump. L’altra mattina, mentre residenti, autorità e persino turisti si davano una mano nel tentare di salvare il salvabile, fare una prima, dolorosa, conta dei danni, un gruppo di giovani del movimento Fridays for Future a San Marco ha esposto uno striscione «Tide is rising, and so are we».

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