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I castagni dell’arco alpino

I castagni dell’arco alpino

La dendroteca Dal castagno cavo di Cà Benico all’enorme Balech ai piedi del monte Tomatico, che secondo la leggenda ospita uno spiritello dispettoso

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 28 febbraio 2019

Castanea sativa. Castagno edibile. Commestibile. L’albero del pane, lo chiamavano. I nostri nonni, i nostri avi. Le loro mani si muovevano in bianco e nero, nei secoli passati. Spenti sono i loro amori, spenti sono i loro desideri, spenta la rivalsa forse nei riguardi d’una vita di fatica e sacrificio. Oppure no, la vita la si vive comunque, così. Come nasce, come cresce, come si evolve. Se nasci in una famiglia di bocche abituate a chinarsi su piccoli piatti di legno, alla luce di una candela, ficcati stretti stretti dentro una modesta casupola di pietre, alle falde d’un bosco tetro. E se cresci fra troppi fratelli e qualche sorella che intanto non serve mandarla a scuola, lei andrà in sposa ad un lavorante delle altre famiglie della borgata: cosa le serve sapere la geografia o la storia se intanto dovrà occuparsi di sfamare figli? Di accudire i vecchi del marito, qualche fratello precipitato in disgrazia. Ogni giorno preparare la colazione col pane secco, salire o scendere dalle bestie a prendere il latte, prodigarsi a preparare pranzi e cene. Rattoppare le vesti. E andare al fiume a lavare i panni lerci. Una vita consumata nella fatica e nel sacrificio. Intere generazioni compresse quassù, circondati dai castagni, e più su dalle querce, dai pini. Dai larici e dagli abeti. La storia maggiore nessuno la conosceva, i giornali chi aveva tempo e modo di acquistarli. E poi uno forse, a famiglia, sapeva leggere. Per le lettere si andava a porgere questua al prete, lo scrivano del paese. Quando non dell’intera vallata. Soltanto la guerra ogni tanto passava. Truppe straniere che saccheggiavano. Figli troppo giovani che partivano e non tornavano. E quando tornavano, talvolta, era anche peggio. Perché erano partiti mezzi uomini, ma erano tornati tutti pazzi. Certe idee, certe ferite. Certi sguardi… E i castagni? Eccoli lì, sullo sfondo, a crescere. A nascondere la pancia della montagna con nuove tempeste di foglie. A sfornare frutti. Fino a che una truppa di boscaioli, armata fino ai denti di lame e asce, di mazze e manére, saliva, affaticata, e restava là, dormendo per mesi in baracche di fango e terra, radendo al suolo tutto quel che si poteva radere al suolo. Poi toccava ai maestri d’un’arte che si tramandava di padre in figlio, gli aristocratici del bosco, come scriveva Cassola, per così dire. I carbonari, destinatari di una legge esoterica che sapeva trasformare la legna in carbone. Tutto si toccava, ma non gli alberi maggiori, i vecchi «arbo» (in certe zone la parola albero e la parola castagno suonavano da sinonimo). Gli anziani castagni secolari, carichi di ombre nello stomaco. Pochi rami a saetta spezzata. Loro li si guardava con sospetto, quasi con timore. Come se li abitasse un idolo maligno. Da quanto tempo saranno qui? Secoli, forse millenni, ipotizzavano i mariti e i fratelli. Lì, quell’albero c’era già e cresceva quando nel bosco saliva il padre loro, e così il padre del padre e pure il padre del padre del padre, loro. Per immaginarlo piccolo arbusto insicuro e mortificabile c’era bisogno forse di ridiscendere la scala del tempo, magari indietreggiare fino all’Italia disunita, e magari anche prima, al labirinto oscuro dell’Età di Mezzo. L’anno mille, che tutti salutarono vestiti da morte e sventolando una falce come a carnevale. Ma chissà, il mistero di certe creature. Noi siamo solo uomini, che vuoi che ne capiamo?

Chi ha orecchio può forse sentire ancora queste ombre fermentare, visitando le grandi bocche scavate in giro nei boschi delle regioni alpine. Vecchi castagni butteratissimi e dolenti, stracci e smangiati dal dio Cronos. Li si può incontrare nell’entroterra ligure, nell’imperiese, come avviene ad esempio nel seicentesco bosco di Grou, a Castelvittorio, o a Ceriana, dove resiste il «castagno Natta», e ancora a Molini di Triora. Qui radicano vecchi esemplari di tre o quattro secoli, annosi e larghi fino a dieci metri di circonferenza del tronco. Il Piemonte offre diversi vasti esemplari, coetanei dei liguri. Lo splendido castagno di Titta a Melle, in Valle Varaita, la castagna grossa di Monteu Roero, terra eletta dal Signore del castagno. E ancora: il castagno di Bioglio, nel canavese, la Maria Bona, pianta maestosa che riposa, guardinga, vigila le poche anime di una frazione a Crodo, nell’Ossola. In Valle d’Aosta ci attende un vecchio pastore intirizzito, con un ramo ancora puntato contro la cima della montagna che lo sovrasta, il Tsahagnèr de Derby, nel comune di La Salle. In Lombardia i castagneti hanno alimentato le comunità alpine fino a pochi anni fa, testimone chi scrive che ancora ricorda, da bambino, gli inverni trascorsi mangiando minestre di castagna. Dal castagno cavo di Cà Benico a Capizzone, in Valle Imagna, al castagno sdraiato di frazione Piasci a Berbenno, il castagno di Cargiù a Vobarno, nel bresciano. Nelle montagne venete non si può non andare a visitare lo spiritello dispettoso che la tradizione locale riconosce nel Balech, il vasto castagno ai piedi del Monte Tomatico, in frazione Cilladon, nel comune feltrino di Quero. Il Trentino e l’alto Adige offrono un ampio caleidoscopio di vastità arboree, protette dalla cura degli abitanti delle malghe, quali Maso Maggner a Renon, Maso Lutt a Scena, Maso Togn a Faedo, Maso Pizzi a Frassilongo, Malga Lusenegg in Val Gardena. Oppure, fra i boschi, i castagni di Cornedo all’Isarco, il castagno di Gatsch a Varna. E non va dimenticato il castagno di Pegliano, nei boschi di confine fra Friuli e Slovenia. Insomma, una galleria di veri e propri castanodonti da far girare la testa. Un patrimonio che rileva quando il castagno sia stato presente nelle esistenze degli uomini che hanno vissuto in queste terre di passaggio fra la pianura e le alti valli. Lassù gli uomini hanno sempre avuto poco tempo di scherzare.

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